Credo che la mente dei bambini funzioni un po’ come la mente degli adulti in dormiveglia. Cioè suscettibile di libere associazioni, assurdità e rivelazioni.
Stavo per svegliarmi nell’aereo che mi avrebbe portato a Milano, sentivo la voce dello steward nell’interfono dire che stavamo volando in tondo sopra l’aeroporto perché a terra c’era troppa gente, i gate erano sovraffollati e due coniugi greci stavano litigando. Mi riaddormento. Di nuovo mi sveglia l’inglese incomprensibile dell’impiegato Ryanair. Mortificato ci avvisa che stiamo ancora volando in circolo sopra ad Orio al Serio perché c’è il nubifragio, Milano è allagata così come l’aeroporto. Per scusarsi dell’inconveniente ci offriranno caffè e cornetto. Mi sveglio e fuori dal finestrino c’è il sole, penso che siamo ad una quota troppo alta perché possa piovere, l’acquazzone sarà più in basso. Cerco di dormire ancora, poi però vedo il carrellino delle bevande avvicinarsi e mi sforzo di rimanere sveglia per approfittare della colazione gratis. Ma le hostess non servono niente a nessuno. Lentamente, mano a mano che mi sveglio, realizzo che era tutto frutto della mia immaginazione. Il dettaglio rivelatore, devo ammettere, sono stati i due greci che litigavano e per colpa dei quali l’atterraggio era impossibile.
Guardo l’orologio e siamo in perfetto orario, non abbiamo volteggiato per ore a mo’ di avvoltoio sopra una carcassa, come credevo. L’aeromobile è a terra, tutti i passeggeri accendono il telefono, molti non si sono premurati di mettere la modalità silenziosa quindi è un continuo di bling bling. Il mio è spento perché tanto non ho credito per avvisare nessuno. Sono le nove di mattina, mia nonna è sicuramente già sveglia. Qualche giorno prima la avevo avvisata che sarei arrivata, la nostra telefonata è stata brevissima, cinquanta secondi, ho controllato. Ciao, come stai, dove sei, va bene, chiamami quando arrivi. Alle dieci suono il campanello e nessuno mi aspettava così presto. Sorpresa!
Le case di mia nonna sono sempre meravigliose. Grandi mobili di legno, un mix tra pezzi di design anni ’60 e cassettiere Luigi XVI. Librerie piene, tutte le opere della letteratura dalle origini ai primi del Novecento edito da Raffaele Mattioli, vinili dalle fodere ingiallite. Album di musica classica, tutti compositori tedeschi che ascoltava mio nonno. I quadri di mio zio appesi alle pareti, sculture in legno, vasi di porcellana. Non c’è niente che non sia estremamente elegante, fatta eccezione per qualche posacenere o porta-candela ricevuto come bomboniera di matrimonio da nipoti di amici.
Benché il gusto di mia nonna sia innegabile, la casa di Corso Garibaldi non mi piace tanto come le altre. Si vede che manca il tocco di mio nonno. Sarà stato grazie alla sua educazione per un quarto germanica, ma lui aveva un dono per le soluzioni pratiche. Sapeva sfruttare ogni rientranza del muro, ogni punto morto della struttura, come spazio per immagazzinare. Buffo che poi cercasse sempre di sbarazzarsi degli oggetti inutili. Giorgio in questo appartamento non ci è mai entrato, la nonna l’ha comprato dopo che lui è morto, vendendo la casa in cui ho passato la mia infanzia.
Lisa è sempre impeccabile. I capelli bianchi fini tagliati corti, che non ho mai visto in altro colore o forma. Il sorriso ancora bianco malgrado i settantaquattro anni di tabagismo. Un velo di rossetto sulle labbra rese più sottili dal tempo. La fede e l’anello di topazio giallo sulle dita ormai nodose, ma che conservano i manierismi di una vita. I golfini in lana pregiata, che non toglie neanche d’estate perché ha sempre freddo. Non mette più le scarpe con il tacco perché la schiena le fa spesso male e non è più agile come una volta. Neanche le gonne strette, lunghe fino al ginocchio le ho più visto indossare. Mai mi ero resa conto di quanto mia nonna fosse attraente finché non ho visto le foto di quando era giovane. Capelli corvini, occhi grigi, pelle bianca, e quel sorriso timido di chi non sa di essere bella. La sua amica Franca glielo diceva sempre che era un’ingenua.
Compagna di malefatte ed avventure, con lei andava a fumare le prime sigarette lungo il Lago di Como invece di andare a scuola. Ascoltava la musica jazz e mangiava cioccolata di nascosto.
Siamo una famiglia del nord, poco tattile, non molto affettuosa nel contatto. Però con i miei nonni ci ho passato parecchio tempo, abitavano al piano di sopra. Sono strane le cose che più vividamente ricordo. Come che quando avevo la febbre potevo stare nel loro letto a guardare i cartoni, ma che il materasso mi stava scomodo perché era troppo molle. Che la nonna mi cucinava sempre la pastina e io le chiedevo di non mettermici il parmigiano perché mi faceva schifo che si sciogliesse nel brodo, ma lei mi rispondeva che ero una pittima e ce lo grattugiava dentro lo stesso. Che una volta al mese mi portava al salone a tagliare i capelli ad insaputa di mia madre. Erano sempre corti da maschietto e non mi piacevano tanto, ma la parrucchiera, Angela, aveva dei ricci gonfi rossi, la matita per gli occhi azzurro metallico, unghie lunghe colorate e mi piaceva guardarla. Mia nonna mi ha insegnato a fare l’uncinetto e a lavorare con i ferri. Mi ricordo di un pezzetto di lana verde che avevo fatto, la mia prima creazione a maglia. Era piena di buchi, due in particolare erano davvero grossi, per ovviare al problema ci avevo cucito sopra due bottoni dorati. Avevo aggiunto dei ciuffetti di lana rosa in cima, poi avevo cucito le due estremità di modo che diventasse una sorta di marionetta. L’ho portata a mia nonna tutta fiera e gliel’ho regalata spacciandola per una rana. Avrò avuto sei anni. Lei mi disse:
“Bello. Ora lo disfiamo così non sprechiamo la lana.”
Mia nonna non mi dava mai soldi. Almeno non senza motivo. Avevamo stipulato un accordo in stile Mecenate, io facevo disegni o cucivo animali di pezza imbottiti —istrici, conigli e gatti— e poi glieli vendevo, lei mi pagava a seconda della qualità, dalle mille alle cinquemila lire. A diecimila non ci arrivava quasi mai.
Un anno lo ricordo meglio di tutti, mia mamma mi aveva letto il Giardino Segreto ed io mi ero appassionata alla botanica. Avevamo un giardino grande e curato. Chiesi alla nonna se mi insegnasse i nomi delle piante. Quell’estate passeggiamo per il giardino quasi ogni pomeriggio, io avevo un blocco di fogli a quadretti colorati, azzurri, gialli e rosa, disegnavo i fiori che vedevo e lei me ne diceva il nome, sia quello comune che quello scientifico. L’anno dopo lessi qualche altro libro e mi venne la fissazione per le oche. Le chiesi se ne potevo prendere una da tenere come animale, lei mi rispose che no, perché le rovinavano il prato. Tornai quindi a dedicarmi ai fiori. Lisa mi aveva regalato la collezione di riviste di giardinaggio a cui un tempo era abbonata e la sua scatola di decalcomanie floreali per fare progettazioni. Dai giornali ritagliavo le foto e continuavo la mia impresa enciclopedica, incollando le immagini nei quaderni vuoti. Con le decalcomanie invece mi inventavo giardini perché avevo deciso che sarei diventata un architetto del paesaggio.
Anche mio nonno si occupava del giardino. La sua immagine è nitida tra i miei ricordi, basso, con la capigliatura folta, la pelle olivastra, gli occhi marrone-verdi, esteticamente il più terrone di tutti, come diceva sempre mio padre, napoletano di nascita. Passeggiava con le mani dietro la schiena, ispezionava l’erba, raccoglieva i rametti secchi, dava la caccia spietatamente alle processionarie: la piaga dei pini silvestri. Non mi piaceva pranzare con i nonni, perché non mi piaceva mangiare, e Giorgio, se lasciavo qualcosa nel piatto si scocciava parecchio. Non voleva che lasciassi neanche l’acqua nel bicchiere. Quando mi vedeva togliere i filamenti bianchi dagli spicchi di mandarino o i semi dagli acini d’uva, sbuffava, mi chiamava sfinimento, ma poi rideva. Mio nonno me lo ricordo soprattutto seduto sul divano, in maniera composta, che ascoltava la musica ad un volume altissimo, l’udito con l’età aveva smesso di funzionargli. Io mi chiedevo come fosse possibile, che con quelle orecchie così grandi, non ci sentisse bene.
Mi faceva un sacco di regali, tutte le cose che trovavo in cantina o nel recinto con i cassonetti le potevo tenere. Quando poi felicissima portavo i miei bottini a mia madre, lei si arrabbiava e diceva a Giorgio che doveva smettere di rifilarmi tutta l’immondizia di casa. Io ero un’accumulatrice emozionata per ogni nuova acquisizione. Alcune cose ce le ho ancora. Come un quadro che mio zio trovava brutto e così i suoi genitori: una tv con sopra una pianta, appoggiata su un tavolo violaceo dove giace una buccia di banana. Ho anche un portamonete rosso che a mio nonno era uscito dall’uovo di Pasqua di qualche decennio fa, una scatoletta di legno ad apertura segreta, in cui dentro conservo ancora una moneta di quando i nonni mi hanno portata a Versailles e un coltellino di metallo intagliato, che forse è l’unica cosa veramente di valore di questo elenco.
Sempre con loro sono stata a Venezia. Avevo sette anni. Mio nonno mi aveva detto di fare attenzione alla strada dall’albergo a Piazza San Marco, nel caso mi fossi persa. Mi aveva spiegato tutte le opzioni e mostrato tutte le scorciatoie. C’erano tre possibilità di tragitto, in una di queste si passava davanti al negozio della Olivetti. Quando ci fermammo davanti alla vetrina, mi raccontò la storia dell’invenzione del personal computer e di come per un mancato patentemento dell’idea, il primo PC oggi è attribuito ad un americano. Stessa cosa per l’ABS con i tedeschi. Tornando a casa mi ha raccontato anche di come Campo Santa Maria del Giglio che nell’antichità si chiamava Campo Santa Maria Zobenigo e come le ali dell’angelo su una delle sue colonne laterali, fossero diventate verdi perché il bronzo si ossida. Tornati in albergo i nonni si misero a fare il riposino, io chiesi di scendere nel campo a giocare con il Supersantos. Dopo dieci minuti di palleggi in solitaria, decisi di tornare in Piazza San Marco, perché la chiesa era proprio bella da guardare, soprattutto le cupole dorate. Quando decisi di tornare all’albergo cercai di ricordarmi le istruzioni di mio nonno, le scorciatoie, le diverse possibilità. Feci tre tentativi e mi ritrovai sempre nello stesso vicolo chiuso, con un canale di lato e un cancello di ferro battuto alla fine. Iniziò a salirmi il panico. Era una sensazione che conoscevo perché mi capitava spesso di provarla quando andavo il sabato al supermercato con mio padre. Quando gli dicevo “aspetta, voglio vedere una cosa,” e lui non mi sentiva e tirava dritto. Fortunatamente mio padre ha una statura imponente ed una predilezione per i maglioni rossi. Non era difficile individuarlo nella corsia successiva.
Vidi un uomo, che nella mia prospettiva di bambina doveva essere anziano, perché aveva i capelli bianchi. Gli chiesi dove fosse Campo Santa Maria Zobenigo. Mi prese per mano e mi disse che mi avrebbe accompagnato, mi ricordo che era molto bello ed elegante. Mia madre mi ha raccontato che alle cene con gli amici, quando non mi si trovava più, bastava cercarmi in braccio all’uomo più attraente della stanza. Quando arrivammo al campo, il personale dell’albergo e i miei nonni erano per strada, mi videro apparire insieme all’uomo e si fermarono come giocatori di un-due-tre-stella! Il signore raccontò cosa era successo, meno male che era veneziano e sapeva anche il nome antico, lo aveva stupito il fatto che lo avessi usato. Non mi ricordo molto altro, solo che poi mio nonno mi chiese perché caspita non avessi detto Campo Santa Maria del Giglio.
L’ultima conversazione con mio nonno me la ricordo bene. È stata parzialmente in tedesco. Cioè lo parlava solo lui, perché io a Berlino mi ci ero trasferita da appena un mese. Gli avevo detto che il marito di una cugina di mio padre ci era andato nel 1989 e mi sembrava un sacco di tempo prima.
“Pensa che io ci sono andato durante la guerra,” mi rispose mio nonno. Era un disertore, ma poi era stato catturato e portato nei campi di lavoro forzato. Disse che aveva imparato il tedesco mentre pelava le patate.
“Una volta finita la guerra ci sono voluto tornare. Berlino era ancora tutta distrutta, ma io volevo finire di imparare il tedesco.”
Lisa, quando poi Giorgio si è alzato, mi ha detto che si diceva in giro che parlasse come un letterato Romantico. Come sempre dopo i pasti si è poi accesa una sigaretta, il nonno nel frattempo era tornato a sedersi. Non ho mai capito come abbia fatto a vivere oltre sessant’anni al fianco della nonna senza mai fumare.
Dopo la sua morte ho chiesto se potessi prendere i libri in tedesco. Tanto nessuno a casa li avrebbe potuti leggere. Me li sono portata qui, a Berlino. Il mio preferito è un’edizione rilegata con la copertina rossa, le pagine ormai marroni sembra che si possano sgretolare al tatto.
Il nome Brecht impresso sulla costa, dorato. Le sue poesie. Postume.
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Immagine di copertina: Illustrazione di Angelica Lena
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