Io la chiamo la Bestia.
C’è sempre stata da quando ne ho memoria.
Quando ero una bambina anche lei era appena nata, arrivava maldestra, non annunciata, mi prendeva da dietro come se giocassimo a nascondino, ma era troppo forte per me che ero piccola, molle e con un’epidermide frastagliata: mi tramortiva.
Mi svegliavo senza sapere dove fossi, piena di ferite insanguinate sulla fronte, sulle braccia, sulle mani. Mi coprivano come le crepe nelle strade di campagna arse dal sole in estate. La Bestia – che a quei tempi ancora Bestia non era, era un’entità astratta, ambigua e straniera – mi aveva trascinata malamente nella sua tana. Là tutto era uguale al mondo reale, ma allo stesso tempo era irriconoscibile, corrotto, perverso, privato di senso e di direzione. Concetti familiari come casa, scuola, amici, mamma, gioco, nella tana della Bestia smettevano di essere casa, scuola, amici, mamma, gioco. Non avevano più significato. Io ero persa, galleggiante in un mondo alieno. Mi immobilizzavo, oppure piangevo.
Mia madre mi guardava esasperata, mi chiedeva “Cosa ti manca che hai tutto quello che vuoi”, ma più che chiederlo me lo diceva, era una constatazione di cui avrei dovuto prendere atto. Aveva gli occhi straripanti di impotenza che si riversava fuori e si confondeva con la mia, infatti io non potevo che rimanere zitta.
Mi ricordo un sogno che facevo spesso e riassume bene, credo, le mie sensazioni di bambina.
Ero al Lago di Santa Giustina.
Il Lago di Santa Giustina è il mio posto sicuro, oggi il luogo a cui vado con la mente quando sto male, allora il luogo dove andavo con mia madre o i miei fratelli d’estate, dove ho imparato a nuotare, che conoscevo come le pieghe nelle mie mani che spurgavano sempre, dermatite atopica la chiamavano loro, io non la chiamavo ancora la Bestia, ma ora so che era già lei, da dentro, che mi graffiava.
Nel sogno ero da sola nel bosco vicino al lago, era sera e dovevo tornare a casa. Mi facevo strada verso uno spiazzo erboso che in realtà non c’è mai stato, man mano che camminavo crescevano le ombre e con esse la sensazione di non essere più al sicuro. Era la Bestia che arrivava. Nello spiazzo – un posto sospeso, irreale – incontravo mia madre, mio padre e i miei fratelli, che erano in macchina e mi chiamavano per andare a casa. Ma io sapevo che loro in realtà non erano mia madre, mio padre e i miei fratelli e che casa non era casa. Quelle persone avevano una consistenza ectoplasmica, sembravano essere state assemblate al momento e di fretta da qualcuno che era riuscito ad abbozzare solo una versione di prova del loro essere, la quale mancava di ogni spessore.
Mi facevano segno di raggiungerli, le loro braccia sembravano doversi staccare dal corpo e cadere per terra da un momento all’altro con un tonfo sordo, che in quel posto irreale sarebbe rimbombato per sempre. Potevo sentirlo anche se non era ancora accaduto. Mi sorridevano con il collo paralizzato, la testa immobile. Io non volevo seguirli, ma non mi potevo rifiutare: in qualche modo sapevo che il problema era dentro di me, non dentro di loro. Allora fingevo che tutto fosse normale, salivo in macchina; ricordo il panico bussare, le lacrime salire, poi di solito la sagoma della porta della mia stanza: il sogno si era concluso.
Nel sogno, credo ora, davo una forma simbolica e narrativa a quello che mi succedeva nella vita reale: il mio posto sicuro, il mio mondo, la mia famiglia, si trasformavano quando la Bestia arrivava. Il mondo onirico metteva in scena quell’amalgama di spaesamento, non-senso e mancanza di teleologicità che io non riuscivo a spiegare, né ai miei famigliari né a me stessa.
Naturalmente, io non riuscivo ad articolare questo pensiero. Ero arrivata al mondo da poco e tutto era nuovo. Mi sembrava, però, di aver imparato questo: a volte la vita sicura si interrompe. La realtà mondana funziona a scatti e bisogna sempre essere preparati a precipitare in un posto dove le cose smettono di essere quelle che sono.
Quando ero bambina la Bestia la odiavo, mi terrorizzava, quando arrivava mi toglieva tutto quello che avevo. Non avrei mai immaginato che ad un certo punto della mia vita non avrei potuto più farne a meno.
Altri so che la chiamano La Cosa. Alcuni si accontentano di angoscia, tristezza, malinconia.
Per me La Cosa è troppo anonimo, mentre angoscia, tristezza e malinconia sono nomi generici, alla mercé dell’uomo qualunque.
La mia Bestia è la Bestia del processo creativo, nel corso della storia ha già assalito tantissima gente. È quell’insistente disagio emotivo che fa prendere in mano una penna o un pennello, che costringe a pensare alle leggi dell’universo, a creare teorie, che fa muovere le dita sul pianoforte. È un tema risaputo, che è spesso un inguaribile male interiore, il primo motore dell’arte. Chi ne soffre deve imparare a capirlo, gestirlo e se possibile anche ad amarlo. È un viaggio tormentato quello che ne segue, una relazione bizzarra quella che ne nasce e per ognuno il percorso è segnato da tappe precise. Così anche se il tema è abusato, ogni storia diventa speciale.
La mia storia con la Bestia ebbe una svolta quando io ero adolescente. A lei erano spuntate le orecchie, le zampe, degli affilatissimi artigli e le era cresciuta nella pancia una insaziabile fame.
Durante il periodo fra i miei tredici e vent’anni ci massacrammo, io non la volevo, ancora la odiavo, ma iniziavo ad intuire che c’era una ragione per la sua presenza. Lei invece era troppo violenta, non si controllava. Ma se da bambina la lasciavo fare, da adolescente la combattevo. Ci azzuffammo per anni, soprattutto in camera mia, con me stesa sul letto incazzata, rabbiosa, in silenzio. In quel tempo, anche se non lo sapevamo, ci plasmammo a vicenda, ad ogni zampata ci siamo date una forma, ad ogni spinta siamo diventate più forti, dopo ogni lotta sapevamo qualcosa di più l’una dell’altra. Ma ci sarebbe voluto altro tempo per fare qualcosa di quelle scoperte. Per il momento io sentivo solo lo strazio che mi divorava.
Intanto la mia dermatite si era circoscritta alle mani, che erano spesso un’unica piaga. Lo prendevo come un buon segno, significava che la Bestia non aveva più potere illimitato, ero riuscita almeno a concentrarlo in un unico punto. E finalmente anche mia madre si era resa conto che il cortisone non avrebbe mai fatto effetto, così da quel momento la condizione della mia pelle diventò il metro di giudizio della mia psiche. Fino a quando avrebbe vissuto, ogni volta in cui sarei tornata a casa dopo qualche tempo passato lontana, mia madre mi avrebbe accolta ordinando: “Fammi vedere le mani”.
Se erano lisce la conversazione non avrebbe avuto bisogno di proseguire e il suo sorriso si sarebbe disteso.
Non avendo antidoti alla Bestia, iniziai a combatterla con la sua stessa moneta: mi auto-distruggevo, le rubavo il lavoro. Credevo, ad esempio, che immettere cose in me stessa mi avrebbe aiutata a sentire meno quell’assenza di senso che ogni tanto mi tormentava. Ma aveva un effetto solo di breve durata: tutto quello che entrava usciva, infatti, dopo poco tempo da parti poco poetiche del mio corpo e mi lasciava di nuovo vuota, anche disgustata.
Fu appena dopo i vent’anni che ebbi la grande rivelazione e iniziai a comprendere cosa la facesse stare tranquilla. Era contro-intuitivo: per sentire meno la Bestia dovevo darle una forma e soprattutto buttarla fuori, all’aperto, ché diventasse manifesta e smettesse di fare paura e di generare rabbia e risentimento. Non dovevo colmarmi di cose, dovevo fare l’opposto, dovevo liberarmi di quello che avevo dentro, tanto il vuoto non si sarebbe mai e poi mai riempito, non era quello il suo scopo.
Anche questa volta, comunque, non arrivai a formulare un ragionamento lineare, quello che avevo era un accenno di comprensione in un angolo della mente, là dove i pensieri in potenza aspettano di essere elaborati.
Ricominciai a scrivere e scrivendo ricordai di come scrivere, disegnare e inventare storie, mi facesse stare bene da bambina. Collegai i due momenti, capii la correlazione, vidi come la Bestia, a un certo punto, si calmasse quando invece di respingerla la tenevo vicina. La accettavo, me ne nutrivo, lasciavo che mi attraversasse tutti i muscoli, le giunture, le sinapsi, la facevo penetrare nella mia testa e nella mia carne tesa, la trasudavo dai pori, la piangevo, la masticavo e la inghiottivo facendomi quasi esplodere le vene del collo.
Soffrivo. Eccome se soffrivo. Ma poi nel processo creativo la buttavo fuori. Non solo lei si calmava, ma io mi rigeneravo, mi riempivo di energie e mi sentivo completa, complessa, rotonda, luccicante di una luce quasi spirituale perché, ne ero sicura, avevo raggiunto il fine per cui esistevo.
Quando riuscivo ad effettuare questo processo in modo costante anche le mie mani ne beneficiavano. Mi pareva quasi di vedere le pieghe ritirarsi, smettevo di grattarmi, addirittura iniziai ad indossare degli anelli e a mettere lo smalto. Dimenticai le creme in un cassetto.
Poi, però, costante divenne assillante e iniziai a vivere il mio rapporto con la Bestia come si vive tutto a vent’anni: troppo e senza pensare.
Tutti gli equilibri caddero. La odiavo e la amavo estremamente nello stesso modo e nello stesso momento, volevo disperatamente essere sola, triste, rabbiosa, cosicché poi potessi rigurgitare su un foglio tutto quel male, ma questo finiva per essere troppo e mi maledicevo per essermi trattata senza compassione e senza pensare alle conseguenze. Cercavo la distruzione, lo sfacelo e mi ci crogiolavo, non sapendo nemmeno il perché, sentivo solo di averne il bisogno.
Si prova talvolta una sottile soddisfazione nell’essere tristi e nel riuscire a ricavare qualcosa di estetico, profondo o rivoluzionario da quella tristezza. Ci si sente parte di un processo universale, creatore da sempre esistito. Io mi sentivo di appartenere a qualcosa, anche se solo un pochino e senza nessuna ambizione.
La Bestia approfittava della mia ingordigia, era sempre presente, in fondo in un certo senso io la stavo chiamando, forse lei si sentiva perfino adulata ad essere al centro dell’attenzione. Né io né lei sapevamo gestirci e dopo non molto arrivò, inevitabilmente, l’ora della separazione.
Alcune persone, forse, non la incontrano nemmeno una volta nell’arco della loro vita, altre ne rimangono sconfitte o perché loro troppo deboli o perché lei troppo forte, tante, anche se ci convivono, non si preoccupano mai di conoscerla. A mio modo di vedere, un peccato mortale.
Una delle prime cose che credetti di imparare sulla mia Bestia è che lei non ama le storie d’amore.
A ventitré anni, dopo la sbornia di estremi, volevo un porto tranquillo ed ebbi una lunga relazione con un ragazzo. Durante quel tempo lei non si presentò mai.
Per un paio d’anni mi godetti la pace, ma poi diventai una palla di pongo, tutta uguale, anche le mani, monocolore, dalla consistenza molliccia. Non avevo più slancio né passione, ero assorbita in me stessa, dormiente, in uno stato mentale quasi catatonico. Mi iniziò a mancare quella sottile linea di adrenalina, malessere e incertezza su cui si cammina quando si è destabilizzati. Avevo bisogno di caos, qualcosa che mi rendesse complessa, creatrice, infelice.
Pochi giorni prima della rottura scrissi un testo strano. Era il 2012. Iniziava così: “Portami via. La supplicavo di occhi umidi e labbra morse, di portarmi via”.
Non ero del tutto consapevole di chi stessi chiamando, ma sta di fatto che lei mi ascoltò. Il giorno in cui per l’ultima volta misi piede fuori dalla casa del mio ormai ex ragazzo, la mia Bestia era là che aspettava.
Fu in quel periodo che realizzai appieno che la felicità era sopravvalutata e nella vita non sarebbe mai stata il mio obiettivo finale.
Su una cosa però, mi sbagliavo. Non è vero che la Bestia non ama le storie d’amore. Credo solo si annoi in quelle che finiscono con il sottrarti la linfa vitale e ad un certo punto diventano una serie di gesti sempre uguali, di abitudini e dipendenze, di ripetizioni. A quel tempo, però, io questo non l’avevo ancora capito e negli anni a venire avrei evitato come la morte ogni relazione, oppure l’avrei sabotata, creando un circolo autoreferenziale in cui non facevo che confermare a me stessa che io sto bene da sola, e tutto il resto fa schifo.
Gli anni seguenti furono complessi. All’inizio recuperai la mia spinta creativa. Scrivevo molto, disegnavo, fantasticavo. Ma senza costanza. Poi la fiamma si spense.
Ero bloccata in un posto che odiavo e non riuscivo a trovare il coraggio di andarmene. Non riuscivo a proiettare me stessa in un futuro che avesse dell’ambizione. Studiavo. Non affrontavo i problemi. Passati i momenti degli estremi, riuscii a tenere a bada la Bestia, la quale, apparentemente, si era calmata. Era sempre presente, ma mi si accucciava vicino tranquilla, respirando emanava un sentore di inadeguatezza e disagio che diventò per me una seconda atmosfera. Era spiacevole, ma tollerabile. Ora ero pienamente consapevole della sua esistenza, ma, vedete, la Bestia è una creatura magica. Sa rendersi invisibile, riesce perfino a farti dimenticare della sua esistenza, va e viene, si camuffa. D’altra parte, anche noi abbiamo dei magnifici super poteri e spesso riusciamo a convincerci di cose che assolutamente non esistono, oppure a negare sfidando ogni legge della logica, cose che, invece, sono palesi a tutti gli altri. Non si deve poi dimenticare che il rapporto con la Bestia è solamente uno dei tanti rapporti, reali o mentali, che nel corso della vita si deve imparare a gestire. Non gli si può dedicare sempre attenzione. Esso è fatto soprattutto di sottigliezze, di trucchi, di giochi a prendi e scappa. È un mondo fumoso con leggi a sé stanti, quasi infantili, fatto più che altro di sensazioni, istinti, emozioni che sembrano non avere una fonte, a volte attacchi di panico.
Io non avevo ancora imparato a decodificare quel linguaggio, non ci riesco bene nemmeno oggi. La mia pelle mi mandava sì segnali di allarme, ma io usai il mio super potere di negazione e lasciai che le mani lentamente si deturpassero. Si fermarono comunque ad uno stadio tollerabile, forse con gli anni il mio sistema psico-somatico è diventato meno sensibile.
Ad ogni modo, finii con l’ignorare la Bestia troppo a lungo.
Quando si risvegliò dopo il letargo era morta di fame.
In quel periodo, dopo il risveglio della Bestia, imparai tantissime cose che sarebbero state fondamentali per le scelte che avrei fatto da lì a poco e per il modo in cui avrei deciso di gestire la mia vita, ma prima di tutto capii come si sentono coloro la cui esistenza è dominata dalla Bestia.
Al principio è come vivere sempre in penombra: la penombra diventa la caratteristica principale del mondo, ci si muove a tentoni, la vista limitata fa sì che sia impossibile pianificare il futuro. Si è stanchi. Tanto stanchi, ma non si riesce a dormire. Non si riesce a dormire soprattutto perché si ha paura di svegliarsi. Perché quando ci si sveglia la Bestia è lì, è la prima cosa che si sente.
Poi peggiora.
Immaginate che la carne inizi ad espandersi piano piano dentro al corpo, raggiungendo lentamente gli organi vitali. Immaginate di sentire la carne che occupa sempre più posto dentro al torace, che circonda i polmoni, il fegato e il cuore e poi inizia a premervi contro, piccole pacche insistenti, immaginate di sentire il cuore che manca di spazio, che viene costretto in un angolo ed inizia a battere più velocemente e più forte, immaginate che la carne inizi ad ammassarsi anche nel cranio, penetrando nelle pieghe del cervello, provate a sentire la testa che pesa, i pensieri che rimangono ingolfati nella carne, le emozioni che vengono schiacciate nella bocca dello stomaco sempre da questa carne ottusa, densa e grassa. Si inizia ad avere paura di tutto. Si ha paura di rimanere in casa, ma anche di uscire, si è terrorizzati dal restare soli, ma vedere qualcuno mette un’ansia micidiale, si ha paura di guidare, di camminare nelle strade affollate, del sole che scende perché presto farà buio e se farà buio significa che si dovrà andare a dormire e di andare a dormire si ha paura. Si è prigionieri, bloccati in questo mondo dove regnano la penombra e questa carne puttana. Per liberarsi ci vuole coraggio, intelligenza e a volte anche una botta di culo.
Io, principalmente, ebbi una botta di culo ed ebbi la possibilità di trasferirmi a Berlino.
Il luogo in cui si decide di vivere ha un’importanza fondamentale per il proprio equilibrio mentale. Io arrivai a Berlino sapendo che sarebbe stata casa, per una serie di ragioni che non so spiegare se non con qualche immagine e concetto random che per me raccolgono tutto il senso del mondo. Ad esempio: la gente brutta con i cappotti vecchi, aspettare l’estate nel grigio, il grigio che anche se non è piacevole non fa paura, non è la penombra, gli edifici che urlano quello che hanno visto passare, i vaffanculo ad alta voce in strada, sentirsi il diritto di stare male, per quello stare meno male, gli anni novanta, l’assenza di gusto e chissenefotte, non sapere quello che succederà, non capire mai un cazzo di quello che sta succedendo, la speranza, le pettinature da Postalmarket, la fratellanza, parlare di Berlino con la gente di Berlino, il grezzume, le insegne giallognole e sgarrupate dei locali, la stranezza che serpeggia, non doversi nascondere più.
Un’altra ragione per cui sapevo che Berlino sarebbe stata casa, che alla luce di quanto ho raccontato nelle righe precedenti invece riesco a spiegare, è che ero certa anche la Bestia l’avrebbe accettata come tana. Il mio piano era un piano per entrambe.
Da quel periodo nero prima di partire, infatti, avevo imparato che stare in equilibrio richiede un piano. Prendersi cura di se stessi è un lavoro faticoso, puntuale e meticoloso. È una pratica in divenire, che si deve continuamente adeguare al cambiamento della propria personalità e dei propri bisogni. Richiede analisi, tantissima introspezione e disponibilità a rivoltare da un secondo all’altro la propria visione del mondo. Iniziai a vedere le persone come piante. Ogni tipo richiede una cura diversa, è predisposto a determinate malattie, deve stare attento a specifiche contingenze per non rimanere danneggiato, alcune piante richiedono addirittura l’intervento di un esperto, altre se la cavano senza problemi da sole per tutta la vita.
Io sapevo che la cura di me prevedeva, tra il resto, la scrittura, o comunque doveva per forza contenere un aspetto creativo, il quale doveva essere collegato ad un intenso lavoro di introspezione. Inoltre, doveva svolgersi regolarmente.
Questo per me è l’unico modo per vivere con la Bestia, l’unico modo di vivere e basta.
Sto ancora procedendo a tentoni.
Il lavoro di ricerca introspettiva e di messa in forma scritta di quello che si ha dentro, infatti, è un continuo sacrificio. Richiede tantissima energia, acutezza, concentrazione. Per qualche persona, come accade a me, è sempre generato da un essenziale dolore: il vuoto che si ha dentro, la Bestia che arriva, un’iper-sensibilità verso il mondo che fa vedere le cose in un modo strano, le fa vedere e sentire tanto e in un modo estremamente complesso, non so come altro descriverlo. So solo che quel sentire è talmente tanto e talmente complesso da diventare presto intollerabile.
Naturalmente c’è anche il lato positivo. Quando si scrive, o in generale si crea, e si riesce davvero a buttare fuori se stessi, si raggiunge il proprio posto nel mondo. È come se gli agenti chimici nel proprio cervello si allineassero con le stelle, il destino del singolo si rispecchia così nel destino dell’universo e si raggiunge la perfetta consapevolezza di essere nati per fare solo questo, per sempre questo.
Ma riuscire a fare regolarmente qualcosa di simile è un trauma continuo, ha bisogno di una disciplina ferrea e anche di tanto coraggio. Prima di iniziare a scrivere qualcosa io fisso il foglio bianco per due, tre, anche quattro giorni, perché so quello a cui andrò incontro ed ogni volta penso che no, questa volta non ce la faccio.
Il processo creativo è un continuo sacrificio di sé. Comprende la nudità, un altare, un coltello che incide la carne e una mano che entra per tirare fuori tutte le viscere, una visione mistica che guida ogni movimento, la totale abnegazione alla verità, un Dio, infine la morte e la resurrezione.
Esso può avvenire solo in questi termini e la Bestia ne è la guardiana. Fino a quando il rituale non si sarà svolto alla perfezione lei rimarrà là a graffiare, grugnire, strapparti la pelle. È questa l’eterna insoddisfazione di chi crea, l’infinito sforzo per raggiungere la purezza, il punto più autentico e vivo dentro la propria coscienza, il quale però è e resterà sempre ineffabile.
Da quando sono a Berlino è tutto un po’ più facile. Ogni giorno per sicurezza mi guardo le mani – ormai quello è diventato un gesto automatico – e sono sempre quasi perfette. Sarà che io mi conosco meglio, che conosco meglio la mia Bestia e sto diventando più brava a tenerla vicino, a volerle bene senza farmi sbranare. Sarà l’atmosfera. Penso che anche lei qui sia finalmente a suo agio, è in buona compagnia, anche se non siamo insieme, lei sa cosa fare. Quando non la vedo da un po’, ad esempio, me la immagino occupata a giocare con le altre Bestie sul ponte di Warschauer.
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