Foto di copertina di Giorgia Corea
Si cresce con una grande certezza: amare il luogo che ti ha dato i natali a prescindere da tutto e senza condizioni, con passione.
Come non ricordare il “sempre caro mi fu quest’ermo colle”, o la “materna mia terra” o ancora “addio monti sorgenti dell’acque”.
Molto spesso ci si trova ad un bivio: restare e affrontare l’incerto o partire per cercare di garantirsi un futuro? Quando si va via, si rimane esuli per sempre, profughi che cercano profumi e sapori della propria terra presso altre terre, ma con una speranza in più: vivere una vita degna di tale nome. In Calabria i profumi e i sapori sono infiniti; le città vivaci. Eppure una migrazione sempre più crescente le desertifica. Le città si spopolano, muoiono a poco a poco e tutti assistono silenziosi al declino, troppo impegnati a criticare le scelte politiche fatte o i giovani che non credono nella propria terra. Sono proprio coloro che puntano il dito ad aver indotto le nuove generazioni ad andare via, con le loro scelte sbagliate, le bugie, le promesse mai mantenute su cui si sono solamente rinsaldate le reti di clientelismo che dominano la vita sociale.
Le università, ad esempio, ci sono, ma la maggior parte dei ragazzi decide di andare a frequentarle a due ore da casa, oppure a Roma, a Bologna, a Milano. Colpa della qualità, e delle prospettive. Gli iscritti a Catanzaro, una città da 90.000 abitanti, sono 10.251 contro i 18.063 dell’Università di L’Aquila, comune che di abitanti ne ha 69.000, o i 15.353 di Siena, in Toscana, capoluogo di provincia con 50.000 abitanti e una concorrenza da parte degli atenei circostanti ben più robusta rispetto a quella che deve affrontare l’università catanzarese. Le facoltà più gettonate sono quelle di infermieristica e ostetricia, senza dimenticare la grande fetta d’iscritti a giurisprudenza. Si difende, invece, Cosenza con i suoi 27.323 studenti.
Proprio l’ateneo di Cosenza, d’altronde, ha ricevuto recentemente un importante riconoscimento dalla rivista inglese “Time higher Education”, piazzandosi tra le migliori 400 realtà accademiche mondiali insieme al Politecnico di Torino, alla Bicocca di Milano e alla City University of London, con i quali condivide lo stesso punteggio. Se poi invece si dà uno sguardo alla classifica stilata da “IlSole24Ore” nel 2016 allora la situazione si ribalta, perché Catanzaro si piazza al quarantesimo posto mentre Cosenza al sessantesimo. Eppure, si va via lo stesso, comunque.
I trasporti sono una rappresentazione solare di una regione in stato di abbandono. I calabresi sono costretti a muoversi in aereo per spostarsi verso nord, perché la rete ferroviaria non funziona come dovrebbe. Ci sono solo due treni veloci, in partenza durante tutto il corso della giornata che coprono la tratta Lamezia-Roma, alle 7.56 e alle 10.00, per la modica cifra di 69 euro se non si è under26 o si gode di qualche promozione. Anche scendendo di categoria le cose non vanno meglio. La rete regionale è infatti mal funzionante, poco estesa, in perenne ritardo e con vagoni che arrancano a fatica sulle rotaie, mentre per gli intercity e gli autobus ci sarebbe da aprire un capitolo a parte: compiono il proprio dovere, certo, ma con una lentezza esasperante e numerose tratte soppresse. Ma nemmeno in volo le cose vanno bene. La compagnia Ryanair ha soppresso la tratta Lamezia-Roma, che dava la possibilità a molti calabresi di poter raggiungere la capitale a prezzi vantaggiosi, a causa delle tariffe particolarmente esose praticate dall’aeroporto di Fiumicino, che hanno indotto la compagnia a tagliare una serie di rotte a vantaggio di scali più competitivi. Ora la tratta è gestita in condizione di monopolio assoluto da Alitalia, con una media di ottanta euro per biglietto di sola andata. Sembra si stia facendo di tutto per rendere difficile il ritorno, è come se si invogliassero i ragazzi a lasciarsi dietro le spalle la Calabria perché troppo irraggiungibile, troppo arretrata e lenta rispetto alle loro esigenze.
La Calabria è relegata in fondo a tutte le classifiche di merito nazionali ed europee. Secondo gli ultimi dati Istat sono più di 350 mila i calabresi tra i diciotto e i cinquanta anni che hanno lasciato la propria terra per costruirsi una vita altrove; solo il 15% ha deciso di rimanere in Calabria per trovare lavoro secondo l’ultimo Rapporto Giovani e il tasso di disoccupazione è pari al 20,4%, un dato preoccupante, soprattutto se raffrontato a quello di Centro e Nord Italia, che non va oltre il 10%. Il boccone diventa ancora più amaro se si rapporta il grado di occupazione dei giovani calabresi a livello europeo: la Calabria è tra le prime tre regioni in Europa per tasso di disoccupazione giovanile, con un bel 58,7%. Di fatto è superata solo da Ceuta (69,1%) e Melilla (63,3%), le due enclavi spagnole che si trovano in Nord Africa, sulla costa orientale del Marocco.
Nonostante questo, se è vero che i giovani del sud sono più insoddisfatti nei confronti della propria vita, è altrettanto importante sottolineare come siano più dinamici, disposti a mettersi in gioco (36,8%) e più fiduciosi nei confronti d’internet, dei social media e delle nuove tecnologie, visto come l’unico strumento grazie al quale non rimanere ai margini della società (39,1%) come emerge dal Rapporto Giovani 2017 dell’Istituto Toniolo.
Avere una terra a cui appartenere, cui ritornare, da desiderare, dove ogni chilometro di distanza si vive come un macigno: questo significa essere calabrese e dover andare a frequentare l’università altrove. Non ci si sente mai veramente a casa quando si è lontani dalla propria terra, ma sapere allo stesso tempo che lei sarà lì per te, pronta ad accoglierti quando dopo una vita passata lontano, a cercare qualcosa che in pochi riescono a trovare, si torna indietro. Perché è solo in quel luogo, il proprio luogo, che ci si sente veramente a casa, che si ritorna se stessi, indipendentemente dal fatto che di averlo odiato o di esserne scappati via da giovane.
Nel quadro di fuga generale, c’è pure chi proprio non riesce ad andarsene, qualcuno che ancora ci crede, che di quell’amore così viscerale per la propria terra vive e muore.
Stefano Caccavari ha ventotto anni, proviene da una famiglia che per generazioni ha coltivato la terra che lui ha amato, curato e mai abbandonato. Una laurea in economia aziendale e un brillante futuro nella Silicon Valley, cui ha però rinunciato. Stefano vive per la sua terra e spera che anche altri possano restare, come lui. Il suo progetto è iniziato con l’idea del cosiddetto “L’orto di famiglia”, creato lì dove doveva sorgere la discarica più grande d’Europa, un gigantesco ecomostro di rifiuti solidi urbani e rifiuti speciali sparsi per più di 140 ettari tra Catanzaro e Lamezia Terme progettato e gestito dalla società Sirim Srl, che ha però dovuto arrendersi di fronte all’ostinata battaglia portata avanti in primis da Legambiente Calabria. Se realizzata, avrebbe comportato enormi danni all’ambiente e ai cittadini, poiché sarebbe sorta su due falde acquifere tra i comuni di Borgia, San Floro e Girifalco, con il rischio di avvelenare l’intero territorio.
Oggi il terreno è suddiviso in appezzamenti da ottanta metri quadrati per ogni “affittuario”, seminati e coltivati da Stefano senza concimi chimici o pesticidi, dove più di cento famiglie hanno la possibilità di andare a raccogliere verdure biologiche e di stagione. In realtà a fare il lavoro è il famoso Zio Franco; Stefano ammalia con le parole, spiega come amare la terra, come renderle onore e poterne essere orgogliosi. Insieme sono stati in grado di creare un senso condiviso di comunità, di rendere orgogliosi i cittadini di Catanzaro e dei paesi limitrofi e di coinvolgere nel progetto altre centinaia di persone. Ci hanno provato in tutti i modi ad affossare l’iniziativa de “L’orto di famiglia”, gli atti intimidatori non sono mancati, ma fortunatamente non hanno sortito nessun effetto: Stefano non ha deluso le attese e ha prodotto una piccola rivoluzione di mercato, bypassando gli intermediari tra il produttore e il consumatore.
Oggi sui terreni dell’Orto di famiglia, si ha la possibilità di godere del sole che tramonta tra le colline, respirare aria buona, riconnettersi con la natura e custodire una storia.
Le tradizioni sono importanti, sono alla base della nostra società, eppure pian piano vanno scomparendo o cambiano per adattarsi, per sopravvivere nonostante tutto. Stefano è riuscito a trovare un compromesso: proteggere la tradizione attraverso l’innovazione e le nuove tecnologie. Il suo scopo era difendere l’utilizzo dei grani antichi macinati a pietra naturale, che lavorati come una volta non perdono le loro proprietà nutrizionali, come invece accade spesso nelle produzioni industriali, a causa del troppo calore trasmesso dai cilindri delle fabbriche.
La passione e l’entusiasmo di Stefano sono contagiose e così dall’Orto di famiglia si passa al “Progetto Mulinum“, con l’obiettivo di lavorare grani biologici della filiera di grano antico Senatore Cappelli, coltivato per la prima volta nel 1915 ed utilizzato per la realizzazione di pasta, pane e pizza biologiche di qualità superiore.
Stefano lancia un appello su Facebook, semplice, lineare: “Salviamo l’ultimo mulino a pietra della Calabria”, e raggiunge più di 800 condivisioni. Sono raccolti 500.000 mila euro in 90 giorni e vengono così acquistate le macine ‘La Ferté’ (l’antica pietra usata fin dal 1800 per la macina del grano, prodotta in Francia), che vengono affiancate da un forno rigorosamente a legna per produrre il pane, il tutto in una struttura costruita secondo i dettami della bioedilizia, rispettando i tempi prestabiliti in fase di programmazione e nonostante tutte le malelingue desiderassero vederlo fallire.
Per partecipare all’impresa, di cui Stefano mantiene le quote di maggioranza, basta acquistare una quota partendo da una base di mille euro.
È come una favola a lieto fine: il Mulinum è stato inaugurato ed è pienamente attivo, lavora il grano Senatore Cappelli e produce le farine originarie. Il forno lavora le farine per ottenere il pane tipico, gruppi di studenti vanno a visitare giornalmente le macine e proprio qualche giorno fa, in occasione dell’anniversario della fondazione del progetto, a Siena è nato il secondo Mulinum, nella tenuta Castelnuovo Tancredi della famiglia di Guido Venturini del Greco.
La scalata di Stefano prosegue, la terra ha vinto ancora.
REDAZIONE
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