Fino a sei mesi fa consideravo il jazz una noia mortale. Quasi tutto il jazz, tranne Keith Jarrett. Eppure il concerto, jazz, di Stefano Bollani, lunedì 12 Giugno, alla Philharmonie di Berlino, è stato uno dei più belli che io abbia mai visto.
Devo arrivare alla biglietteria alla 19.15, o comunque entro le 19.30. Altrimenti i biglietti riservati per me vengono rimessi in vendita. Lo spettacolo comincia alle 20.00. Spingo sui pedali: ancora una volta sono stato troppo ottimista col calcolo dei tempi. Durante il tragitto da casa al teatro penso al giorno prima, a quanto abbia trovato strano che nessuno, in redazione, si sia interessato ai due biglietti per questo concerto. Mi preoccupo di aver capito male, penso, o forse si tratta di una serata non tanto importante.
Alla Philharmonie siamo stati solo una volta, l’anno scorso, per Yann Tiersen. Da Marie, che mi accompagna, devo ancora farmi perdonare il terribile concerto che le ho regalato il mese scorso, per il suo compleanno: un pianista che suonava le basi delle canzoni dalla tastiera, in una specie di evoluto formato MIDI, il cantante che conosceva appena metà dei pezzi in repertorio, un sassofonista che aveva scritto in faccia: “vorrei essere ovunque, però non qui, ma devo pur pagare l’affitto”. Questo mi preoccupava, fino a quando ho imboccato il parco di Tiergarten. Poi si è fatto avanti un odore, e ho cominciato a pensare solo a quello: è l’odore dell’estate, ovunque io sia. Mi riporta a casa se sono lontano e se sono in Sicilia mi ricorda i miei 15 anni: Giuseppe, Carmelo, il mare, il pallone, le prime sigarette, e le prime ragazze. Non ho mai saputo quale albero emani quel profumo, per me gli alberi sono alberi, tutti. Marie invece distingue e riconosce i tigli dai gelsomini, e i nomi di tanti altri alberi, che chiama con delle parole francesi di cui non conosco la traduzione. Arrivato alla Philharmonie le chiedo da quale albero arrivi quell’odore; lei elenca tutte le possibilità, ma non arriviamo ad una conclusione: l’odore non l’abbiamo trovato, l’ho sentito solo io. Forse, d’altronde, è solo mio, come quelle estati, o come la voglia di riviverne una.
Sono le 19.20 e mi restano solo 10 minuti per ritirare i miei pass: corro in biglietteria. La signora dietro il vetro mi saluta cordialmente, ma cambia atteggiamento quando le chiedo di due biglietti riservati per la stampa. Ma a lei che gliene entra? A malincuore me li porge, ma solo dopo averle mostrato il documento. Abbiamo ancora circa 35 minuti prima dell’inizio del concerto, troppo pochi per trovare da quelle parti qualcosa da mangiare. Chiedo al banco delle informazioni quanto durerà il concerto: 90 minuti, senza pause (ma in realtà poi suoneranno almeno 20 minuti in più). Per le 22 saremo a casa, penso: possiamo aspettare.
Le porte per l’ingresso in sala aprono venti minuti prima. Mostriamo il biglietto, cerchiamo il nostro posto; neanche alle Jam Sessions del Barrique a Catania ero così vicino al palco: siamo contentissimi. Dell’Orchestra Filarmonica di Berlino c’é una selezione di 14 elementi: 4 archi, 9 fiati, un’arpa. Sono diretti da Geir Lysne, che ogni tanto fa persino da spalla, pur restando nei limiti dello humour tedesco, ai timidi tentativi di gag proposti da Bollani. Timidi solo quelli condivisi, perché quando parte da solo il musicista italiano dà il meglio di sè, giocando, non senza qualche leggera nota di fastidio del pubblico vicino a me, sul suono duro della lingua tedesca: pian piano anche i più scettici si lasciano però andare al gioco.
Quando Vincent Peirani intona il tema de “Il padrino” di Nino Rota, piango. Non so quanto tempo passi prima che gli altri strumenti attacchino: tre, forse quattro minuti. Chiudo gli occhi. Vedo mio padre invecchiare, una fila di alberi ai lati della strada, io che vi passeggio sotto perché il sole è troppo caldo, il sudore, qualcuno che mi si avvicina a petto nudo, il profumo del mare. Tre o quattro minuti, forse: l’estate è durata brevemente, come fossero passati tre mesi. A un certo punto, saranno state le trombe, o forse la batteria, non mi ricordo, sono di nuovo seduto al mio posto, con una mano tra quelle di Marie e l’altra che toglie le lacrime dalla faccia.
Bollani, tra un pezzo e l’altro, prova a parlare in tedesco, legge un discorso preparato, con un accento ironico. La musica suona Monteverdi, Rossini, Leoncavallo, Puccini, Rota, Morricone, Conte, Renis e Cutugno. “Quando, quando, quando”, suonata al secondo bis, prima della seconda standig ovation, Bollani la canta pure. Si allontana dal pianoforte, coinvolgendo prima tutta l’orchestra, poi anche il pubblico, in una versione a cappella del solo ritornello: il testo delle strofe non lo conosce nessuno. Persino Cutugno, sì, quel Toto Cutugno, in questa versione jazz riesce a piacermi: spero non si sappia in giro, in fondo è la prima volta che succede, forse resterà l’unica.
Nell’ultimo anno ho ascoltato migliaia di ore di blues e di musica classica. Nascosti, dentro le note, c’erano decine di brani jazz, che inconsapevolmente ho cominciato così ad ascoltare. Pian piano tutto si è trasformato, sono passato a un ascolto consapevole. Il mio insegnante di musica di quando ero ragazzo sarebbe orgoglioso di me. Una volta mi disse un’ovvietà che però, a quel tempo, mi cambiò la visione del mondo: il gusto si forma, non si crea. La musica in generale, classica e non, rivisitata in chiave jazz, non è certo una novità, eppure quello che accade con Bollani, alla Philharmonie, è qualcosa di diverso: l’orchestra, o un elemento del trio (oltre a Bollani, ci sono Jasper Bodilsen al contrabbasso e Morten Lund alla batteria) o l’energico e scalzo Vincent Peirani alla fisarmonica, cominciano a suonare il brano sempre in una versione originale, oppure leggermente rivisitata, come se il concerto proponesse solo l’esecuzione classica dei brani in scaletta. Poi, improvvisamente, delicatamente, entra in scena il pianoforte, o magari uno o più elementi del trio, a portare avanti il tema, ma in una chiave nuova. Nei momenti di passaggio dalla versione classica a quella jazz, quando tutti suonano, l’orchestra porta avanti la sua musica, mentre il trio si concentra su un ritmo che propone un altro linguaggio. Siamo ad un passo dal fracasso, l’equilibrio è risicato, basta un errore, un’incertezza, un musicista bravo, ma non eccezionale, e tutto può crollare in un banale tentativo fallito, forse anche nella presunzione. E invece no. Assistiamo alla manifestazione della maestria, quando lo straordinario, senza iperboli inflazionate, si manifesta: non mi ero mai alzato in piedi per applaudire in vita mia dentro un teatro. La Philharmonie è piena, io conto meno di dieci persone rimaste sedute.
A concerto finito rivolgo a Marie soltanto tre parole, prima di arrivare a casa: bellissimo, meraviglioso, stupendo. Le pronuncio scendendo le scale, per raggiungere l’uscita. Poi il silenzio. Riprendiamo le bici, riattraversiamo il Tiergarten, stavolta senza odori. Il sole ormai è tramontato, e zitti zitti, in pochi minuti, siamo a casa.
Solo dopo il secondo bicchiere di vino riprendiamo a parlare.
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