Frequento il Qatar per lavoro da qualche anno e quando sono a Doha, la sera, se non ho impegni, mi piace passeggiare per la zona di al-Ghanim. Dopo il tramonto le vie sono illuminatissime e affollate, anche nelle notti bollenti d’estate. Ristoranti himalayani, rosticcerie libanesi, botteghe di barbieri, negozi di elettronica, di sartoria e di giocattoli aperti fino a tardi. Mi faccio strada tra la calca come se dovessi andare da qualche parte, mi fermo a guardare le vetrine come se volessi comprare qualcosa. Qui vivono famiglie, nascono e muoiono amori, corrono pettegolezzi. Mi sembra un luogo autentico. Forse solo perché è una versione esotica del quartiere popolare della mia infanzia.
Il Qatar è sproporzionato: è un po’ più grande dell’Abruzzo ed è il terzo Paese con le maggiori riserve di gas naturale dopo Russia e Iran; vanta due milioni e mezzo di abitanti, di cui solo poco più di trecentomila sono cittadini qatarioti. Il resto sono residenti stranieri: la nazionalità più rappresentata è quella degli indiani, che sono seicentomila, seguita dai nepalesi, che sono trecentocinquantamila.
Questo rapporto tra cittadini e residenti stranieri mi fa pensare alle città greche dell’età classica. Nell’Atene di Pericle, a fronte di alcune centinaia di migliaia di abitanti, i cittadini con diritto di voto erano solo alcune migliaia; il resto era composto da cittadini senza diritto di voto (donne e bambini) e dalla maggioranza di schiavi e residenti stranieri. Non mi si rivoltino contro i grecisti, anche perché non riesco a immaginare come tra i qatarioti possa un giorno nascere un Socrate.
Ma non campano affatto male, i qatarioti: hanno impieghi statali simbolici pagati con larghezza e in più beneficiano del sistema di patronato (kafala, diffuso in tutti gli stati del Golfo), secondo cui ogni residente straniero e soprattutto ogni impresa straniera deve avere un patrono locale, che intasca una bella fetta dei guadagni delle imprese di cui è patrono.
A capo di questo iceberg di ricchezze c’è la famiglia degli al-Thani. Quattro anni fa il vecchio emiro Hamad ha ceduto il trono al quartogenito Tamim (classe 1980).
Arrivo in Qatar alcune settimane dopo l’innalzamento del blocco che ha isolato il paese: l’Arabia Saudita e i suoi alleati — gli Emirati, il Bahrein e l’Egitto hanno sospeso, ormai dallo scorso 5 giugno, i rapporti diplomatici, chiuso le frontiere e bloccato i trasporti con Doha, accusando il Qatar di appoggiare il terrorismo. La prima cosa che noto rispetto ai viaggi precedenti è il faccione dell’emiro Tamim su macchine e palazzi: tutti a mostrargli fedeltà esponendo il suo ritratto. L’ubiqua immagine, opera di un’artista locale, vorrebbe rappresentare Tamim che guarda sereno al futuro, ma vedo un volto dozzinale e occhi spenti che non fanno pensare a un capo che sa dove portare il suo popolo, ma a un impiegato uscito da qualche racconto di Gogol’. Vale la pena di confrontare questo ritratto di Tamim con una qualsiasi foto del fondatore degli Emirati Arabi, Zayed. Zayed trasuda orgoglio, intelligenza rapace, aggressività, lungimiranza. Ci avrei pensato più di una volta prima di fargli qualcosa che avrebbe potuto anche vagamente infastidirlo. Il blocco è stato alzato due settimane dopo la visita del presidente americano Trump in Arabia Saudita, dove ha stipulato un contratto da oltre cento miliardi di dollari di forniture militari (i), e sarà rimosso solo se saranno soddisfatte tredici durissime condizioni (la più importante delle quali è la chiusura dell’emittente televisiva al-Jazeera), che annullerebbero di fatto la sovranità del Qatar. Che ovviamente non ha intenzione di accettare.
“Che cattivi a prendersela con il bonaccione della classe”, dico una sera a cena a Khaled, un amico siriano che dirige la filiale locale di una multinazionale araba, riferendomi all’attacco saudita contro il Qatar. Ma Khaled mi smentisce, non l’ho mai visto, lui, di solito campione di affabilità, così fuori dai gangheri. È il Qatar che se l’è andata a cercare, dice, e la colpa di tutto è al-Jazeera!
Fondata nel 1996, Al-Jazeera ha rivoluzionato l’informazione nel mondo arabo e, raggiungendo più di trecento milioni di case (ii), è lo strumento più efficace degli obiettivi geopolitici degli al-Thani. Gli al-Thani, racconta Khaled, controllano direttamente il QIA (Qatar Investiment Authority) che ha le mani in pasta dappertutto, dall’industria automobilistica all’oil & gas, dalle telecomunicazioni allo sport (la sussidiaria QSI possiede il PSG). Ad esempio, lo scorso marzo, il QIA ha annunciato investimenti nel Regno Unito per cinque miliardi di sterline (iii), che faranno arrivare a oltre quaranta miliardi di sterline il valore complessivo degli investimenti immobiliari in UK. Gli al-Thani sono attivissimi anche nella politica internazionale: il Qatar ha bombardato la Libia nel 2011 per scacciare Gheddafi, ha ospitato la rappresenza diplomatica dei talebani nel 2013, sostiene organizzazioni considerate terroristiche come Hamas (iv) e intrattiene relazioni economiche (v) con l’Iran (il grande nemico dell’Arabia Saudita), con cui il divide il giacimento di South Pars, la maggiore riserva mondiale di gas naturale.
Eccolo l’obiettivo degli al-Thani: sedere al tavolo dei potenti. Il blocco arriva proprio da qui.
Per Khaled Al-Jazeera avrà anche introdotto il giornalismo investigativo nella televisione araba, avrà anche affrontato temi tabù nel mondo islamico, ma ha anche dato spazio a predicatori dell’odio come Yusuf al-Qaradawi, padre spiriturale dei Fratelli Musulmani, e ha soffiato sul fuoco del malcontento durante la “primavera araba”: in Tunisia è caduto Ben Ali, la situazione non è mai degenerata, ma la Tunisia vanta il triste primato di aver esportato il più alto numero di foreign fighters (vi); in Libia Gheddafi è stato deposto e la Libia è stata contesa da vari signori della guerra, finché non sono rimasti Serraj, sostenuto dall’Onu e l’ex generale di Gheddafi, Haftar, sostenuto da Egitto, Emirati Arabi e Russia; in Egitto Mubarak è stato costretto a dimettersi e il Paese è finito nelle mani dei Fratelli Musumani, fino alla restaurazione di al-Sisi; sappiamo tutti cosa è successo alla Siria, diventata ricettacolo dei peggiori tagliagole dell’umanità, e al suo popolo. In tutti questi conflitti c’è però stata la complicità delle potenze globali e regionali che da sempre influenzano il mondo arabo, fa quindi fa un po’ specie l’accusa di finanziare il terrorismo mossa al Qatar da Arabia saudita, Emirati Arabi ed Egitto. Soprattutto dovrebbero tacere i sauditi, che corteggiano e sovvenzionano il movimento islamista radicale del wahabismo, punto di riferimento, non solo ideologico, dello Stato islamico (vii).
Durante il giorno partecipo con Myrna, una collega libanese, e Prabhakar, un collega indiano, a incontri di lavoro in vari quartieri della città. Doha mi sembra la stessa di sempre, noto solo meno traffico. Ma è luglio, la gente è in vacanza, mi dice Prabhakar mentre all’ora di pranzo ci porta a mangiare tamil.
Sì, mi dico, forse non è cambiato niente, però nell’aria si respira una sensazione indefinibile.
Con l’entrata in vigore del blocco, dice Myrna, i cittadini qatarioti hanno perso i loro diritti in Arabia Saudita, Emirati Arabi ed Egitto. Ma quanti ne avranno espulsi? Praticamente solo i diplomatici sono stati sloggiati dal loro mondo dorato. I qatarioti sono straricchi, non hanno certo bisogno di andarsene all’estero per guadagnare bene. Il Qatar invece all’inizio non ha reso pan per focaccia, ma ora molti visti di lavoro a sauditi ed egiziani vengono annullati, anche a persone in posizioni chiave.
Provo le lenticchie con la salsa vada curry: piccanti da morire. Mangio un mezzo paneer dosa per alleviare il tormento di lingua e palato.
Dopo l’innalzamento del blocco, tutto quello che è prodotto in Arabia Saudita, negli Emirati arabi e in Egitto non arriva più, continua Myrna. Le navi che da tutto il mondo attraccavano al porto di Jebel Ali a Dubai, dove erano smistati i container per il Qatar, ora devono fare scalo nei porti dell’Oman o addirittura a Gujarat, in India. Chi non riesce a trovare forniture alternative è costretto a chiudere bottega e in effetti girando per Doha si vedono cantieri abbandonati. Le fonti ufficiali minimizzano gli effetti del blocco e sostengono che non sono previsti ritardi nella costruzione degli stadi per i mondiali di calcio del 2022 (viii), però le importazioni sono crollate del 38% (ix). Della voragine aperta ne approfittano per conquistarsi grasse quote di esportazione Turchia e Iran. E India, aggiunge Prabhakar.
Non a caso la Turchia ha spedito in Qatar alcune centinaia di militari. Un gesto simbolico, perché pochi soldati non possono fermare un’invasione e anche perché di un’invasione non c’è un vero pericolo: undicimila marines sono di stanza in Qatar, nella più grande base americana in Medio Oriente.
L’ultima sera prima di tornare a casa sono ancora a cena con Khaled. Dopo la meze arrivano i kofta e il classico grigliato misto. Basterebbe chiudere al-Jazeera e amici come prima, dico prendendo un po’ di hommous con un pezzetto di pane. Khaled, ancora una volta, non è d’accordo. A parte il fatto che gli al-Thani al momento proprio non ci pensano a chiudere al-Jazeera, dice, il blocco poi non è solo un danno economico: gli arabi del Golfo sono ricchi e ci mettono poco a rifarsi, ma il problema è che sono tra di loro tutti parenti e quello che si è perso è la fiducia. Se anche domani il blocco fosse rimosso, non basterebbero trent’anni a ripristinarla.
Qualcosa si è rotto e pnso sia la consapevolezza di questa rottura quella sensazione indefinibile che si respira a Doha.
È stato un passo avventato, conclude Khaled. Arabia Saudita, Emirati Arabi ed Egitto hanno imposto condizioni che il Qatar non accetterà mai, ma non possono nemmeno tornare indietro, per non perdere la faccia.
Ordiniamo lo shisha e ci mettiamo a fumare. Sorseggiamo in silenzio il nostro tè rosso alla menta, con le labbra che ancora bruciano per il contatto con le spezie.
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