Diluvia ininterrottamente da questa mattina.
Ovviamente non ho l’ombrello, ho le scarpe di tela e devo attraversare la città per andare al concerto al Max-Schmeling-Halle, un palazzetto polifunzionale che si trova nel quartiere di Prenzlauer Berg, 11.900 posti e stasera è tutto esaurito.
Per arrivarci prendo il tram, l’M10 che passa sotto casa e arranca lento sui binari.
Sono in ritardo, come al solito, ma questa volta, diversamente da tutti gli altri concerti a cui ho assistito, non devo affrettarmi per prendere il posto nelle prime file o sgomitare con le altre persone. Questa volta sono una rispettabilissima addetta stampa, visivamente poco credibile visto che mi si legge in faccia quanto non sto nella pelle.
In ogni caso, il viaggio in tram sembra durare in eterno e il bambino che piange senza sosta accanto a me di certo non mi aiuta ad entrare nel mood pre-concerto. Concentro tutti miei pensieri sulle cose che ho pigiato nella valigia prima di uscire di casa. È il mio ultimo giorno a Berlino.
Il bimbo continua a violentare i timpani dei passeggeri, ma fortunatamente la mia fermata è la prossima, quindi mi accosto alle porte e sguscio via alla velocità della luce.
Seguo il fiume d’acqua e di gente che si avvicina disordinatamente agli ingressi, mentre cerco di individuare dove ritirare il mio pass. Con non poche difficoltà e qualche occhiata perplessa da parte del tipo della biglietteria riesco finalmente ad appropriarmi del mio “guest ticket” e, senza perdere tempo, mi dirigo verso l’ingresso.
Gioia n°1: il biglietto mi concede accesso illimitato a tutte le aree del palazzetto, posso sedermi dove credo.
Gioia n°2: c’è il guardaroba a cui posso lasciare la giacca totalmente fradicia e l’ombrello che ha affrontato stoicamente le raffiche di vento e la pioggia che mi hanno investito finora.
Trauma n°1: nel palazzetto non circola un filo d’aria ed è già stracolmo.
Mi guardo intorno e noto di essere decisamente giovane e di non essere vestita adeguatamente: con i miei jeans chiari e la maglietta bianca spicco nel mare di nero che mi circonda.
Inizio la perlustrazione per capire dove posizionarmi e mi affaccio sul parterre. Noto che è già pieno di gente decisamente allegra e troppo alta per i miei gusti. Morirei schiacciata dalla folla nel giro di due secondi. Gli spalti mi sembrano un’ottima soluzione.
Trauma n°2: sento freddo a causa dei pantaloni umidi che, attaccati alla pelle, iniziano ad asciugarmisi addosso.
In ogni caso non ho nemmeno il tempo di lasciarmi travolgere da pensieri ipocondriaci per la probabile broncopolmonite che le luci si abbassano e sale sul palco la band di apertura.
Gioia n°3: gli A Day To Remeber sono un gruppo metal core/pop punk attivo dal 2003, originario della Florida.
Sono veramente bravi e riescono a far surriscaldare il pubblico dopo appena due canzoni.
In sequenza le cose che succedono sono le seguenti: coriandoli e palloni gonfiabili, crowd surfing level pro, citando le parole del front man Jeremy McKinnon, ovvero “persone che surfano altre persone che surfano la folla”; individuo in tutina aderente psichedelica che spara magliette e bacchette e plettri sulla folla; lancio di carta igienica che, rimandata indietro dal pubblico, puntualmente va a finire in testa a quelli della security.
Mezz’ora dopo lasciano il palco e il pubblico oramai non sta più nella pelle.
Le luci si abbassano di nuovo mentre il primo accordo di chitarra e il suono della batteria si diffondono dagli amplificatori riempiendo il palazzetto e facendo impazzire tutti.
I Blink 182 salgono sul palco e, da qual momento, non si capisce più niente.
California è il titolo del nuovo album, il primo dal 2011, il settimo, prodotto dopo che Tom DeLonge è stato definitivamente cacciato dal gruppo. Il più lungo della loro storia, con la bellezza di sedici canzoni.
La California di cui parlano è uno stile di vita, uno stato mentale, simbolo del passaggio dall’adolescenza spensierata alla realtà dell’età adulta; quella regione assolata, con il suo spirito pop e un modo di vivere decisamente esagerato e fuori dagli schemi, che hanno sempre caratterizzato la band.
Il concerto si apre con Feeling this e quel “Get ready for action!“ scatena il delirio.
Ci vuole un attimo per riprendermi dalla sensazione di gioia e disorientamento che mi prende ogni volta che vedo dal vivo una band che mi piace.
Il mio sguardo però è più volte rapito dal pubblico scatenato, dalle decine di persone che fanno crowd surfing e dal tipo panciuto con la maschera di Ray Mysterio che si mette al centro di ogni scontro, incurante delle botte che gli arrivano ogni volta che la wall of death si accartoccia su se stessa.
Poi è la volta di The Rock Show e sembra quasi che vogliano spomparsi già ad inizio concerto perché non si fermano un attimo e continuano con una canzone dopo l’altra.
Sono sempre stati considerati dei “ribelli”, degli outsider e loro non hanno di certo deluso le aspettative. Sempre fedeli alla loro natura punk non si sono di certo fatti problemi o l’hanno mandata a dire quando qualcuno ha provato a renderli più “commerciali” o “catchy”. Questa canzone, specialmente il suo video, ne è la perfetta dimostrazione. Il dietro le quinte delle riprese è tutto un programma: offerta loro una grossa somma dalla casa discografica per girare il suddetto video, con la richiesta appunto di realizzare singoli più accattivanti, i Blink 182 decidono di combinarne veramente di tutti i colori: lanciano banconote dai finestrini o le regalano alle persone incontrate per strada, comprano televisori e macchine costose solo per il gusto di distruggerli davanti agli occhi basiti dei commessi.
Poi Cynical, First date e Down senza rallentare un momento.
I Miss You è il primo momento magico della serata. Si fermano, riprendono fiato e per un attimo, dico solo un attimo, diventano seri. Perché abituati sempre ai ritmi incessanti, alla batteria martellante, I Miss You sembra quasi una ballata, anzi lo è. Ed è così bella che ti lascia spiazzato.
Quel “This is for the ladies” quasi sussurrato al microfono di fronte a 11.000 persone fa placare gli animi, fa emozionare e mi fa venire le lacrime agli occhi.
Il palazzetto canta insieme a loro a squarciagola.
Ma la dolcezza, il momento di pausa, durano giusto una canzone.
I primi accordi di Bored To Death fluiscono dalla chitarra di Matt e, come risvegliati da uno stato di trance, tutti cominciano a saltellare come matti. Per questa canzone, che anticipò l’uscita del loro ultimo album, è stato rilasciato il loro ultimo video: un inno indiscusso alla giovinezza, cantato e gridato da ragazzi ormai decisamente troppo cresciuti (40 anni suonati a testa). La loro età traspare, nonostante non si fermino un attimo e ci mettano la stessa foga di sempre.
Travis Barker dietro la batteria suona come un pazzo, è instancabile.
Una vita che ha riacciuffato per i capelli e rimesso in sesto perché ancora non era il momento adatto per andarsene; aveva una carriera da portare avanti e dei figli da dover crescere. Uno dei due sopravvissuti ad uno schianto aereo, ha superato il disturbo da stress post traumatico, la dipendenza da droghe e psicofarmaci che erano diventati l’unico mezzo per poter andare avanti.
Matt Skiba ha debuttato con la band nel 2015 e da allora il capitolo Tom è stato chiuso una volta per tutte. Devo ammettere che un po’ mi dispiace, perché ho sempre desiderato vedere la band nella sua composizione originaria, ma Matt non si lascia intimidire dal mostro sacro che lo ha preceduto e regge bene il palco.
Voto nove perché non si è mosso se non di pochi metri dalla sua postazione e perché ogni tanto prende qualche stecca.
Mark Hoppus é una persona insicura, un uomo che ha la capacità di devastarti, un eterno Peter Pan, un pagliaccio che vuole sempre essere al centro dell’attenzione ma che in realtà ha un’irrazionale paura di rimanere da solo.
La dimostrazione lampante di tutto ciò è Adam’s Song e gli basta una frase come “Please Tell Mom this is not her fault” per farci capire tutto di lui.
Parla con quelli delle prime file, si fa i chilometri, adula il pubblico dicendogli che canta meravigliosamente, prende in giro i suoi compagni e coordina il pubblico in un happy birthday un po’ brillo per uno della sua crew che quel giorno compie gli anni.
Nove e mezzo perché What’s my age again è una festa e neanche quelli della security riescono a stare fermi.
Il secondo momento magico, quello che veramente le lacrime me le ha fatte scendere, è stato quando si spengono le luci e Mark chiede al pubblico di alzare in aria gli accendini. Gli accendini, non i telefonini. E lì si compie la magia, perché un palazzetto intero si riempie di calde luci gialle che mi mettono i brividi.
Poi in me la consapevolezza: sono stata tutta la serata attratta ed affascinata da questa folla che si scatena, balla e canta, senza notare alcuni particolari importanti: molti di loro non erano nemmeno girati verso il palco, non avevano bisogno di guardare la band esibirsi ma solo di lasciarsi trasportare dalla musica, di sentirla. Nessuno ha tirato fuori il telefonino per registrare il concerto. Hanno vissuto il momento, dall’inizio alla fine, hanno preferito spingersi, muovere le mani a tempo. Perché gli avventori di questo concerto, almeno la stragrande maggioranza, sono di una generazione diversa dalla mia; sono quelli che i concerti li vivevano davvero e poco gli importava di riprenderli per rivederli in un secondo momento, perché quello che contava era l’essere qui e ora.
Ho bloccato il telefono e l’ho messo in tasca per il resto della serata.
She’s out of her mind, Los Angeles e All the small things scivolano via prima che me ne renda conto.
Il concerto si chiude con Dammit e con l’ultima sorpresa della serata.
Il figlio maggiore di Travis, Landon, che ha gironzolato indisturbato intorno al palco per tutta la durata del concerto, si siede al posto del padre.
Lo vedi lì, un po’ impacciato, che tenta di stare dietro a Mark e Matt che teneramente si sono messi sotto alla batteria e gli danno il tempo con la testa. Poi però entrambi si allontanano perché non c’è più bisogno che tengano il ritmo.
Degno figlio di suo padre, Landon si scatena e sfodera delle abilità impressionanti alla batteria tanto da shoccare il pubblico che si pressa in avanti per osservare meglio e rendere omaggio a questo bambino prodigio.
Quando le luci si riaccendono mi sento un po’ persa, disorientata, perché un attimo prima era come essere su un’auto in corsa e adesso è come se l’autista avesse inchiodato di colpo, intimatomi di scendere. Concerto finito, corsa finita. Mi avvio veloce verso il guardaroba per evitare la ressa, ma nel voltare le spalle al palco, come alla fine di ogni concerto, mi rendo conto di lasciare una parte di me su quegli spalti o in mezzo alla folla. Quella parte che proprio non si vuole staccare dall’esperienza appena vissuta e decide di non voler ritornare alla normalità. Perché in fondo la musica è questo: un’evasione dalla realtà. Però come le altre volte, vado da quella parte di me e la prendo per mano, la trascino via. Perché per quanto possa essere bello evadere insieme a migliaia di persone per una sera, c’è sempre bisogno di quei ricordi, di quelle sensazioni da poter rivedere in loop quando evadere non è possibile, quando si è soli.
Forse è una sorta di dipendenza la mia, dalla musica, dai concerti, dall’adrenalina che provi incessantemente per due ore e che poi conservi gelosamente negli anni a venire. Quella parte di me dedicata ai Blink 182 deve tornare indietro e, seppur riluttantemente, la prendo a braccetto e la porto fuori. La pioggia non ha smesso di scendere impietosa, ma adesso non mi dà lo stesso fastidio di prima.
Ho vissuto ed è stato meraviglioso.
La foto di copertina è di © FKP Scorpio
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