Illustrazioni di Francesco Gulina
A Melbourne non ci sono piccioni.
Pensavo a questo mentre camminavo per la spiaggia di St. Kilda. C’era il sole, c’era un unico uomo che faceva il bagno, c’era l’oceano grande e piatto, acceso da miliardi di luci riflesse, come una palla stroboscopica spalmata sull’orizzonte. Ma non c’erano piccioni. Al loro posto, piccoli gabbiani bianchi dal collo storto si combattevano un minuscolo pesce e lanciavano grida pazzesche, come se quello fosse l’ultimo pezzo di cibo in tutta l’immensità dell’acqua lì di fronte.
Le differenze fra un luogo e l’altro possono saltare all’occhio come pulci, particolari minuti che ti fanno lacrimare e ti dicono che non sei più a casa. Non vedi l’Eureka Tower, il grattacielo di 290 metri che fende il cielo e sale fino a traforare il buco nell’ozono, non vedi la St Patrick’s Cathedral con tutti i suoi arzigogolamenti gotici fatti apposta per attirare l’attenzione. No, vedi che al posto del kebab in strada si vende sushi, noti che le monete nel portafoglio pesano di più anche se tu sei più povero di prima, vedi che pochissimi hanno fra le dita una sigaretta. E che non ci sono piccioni.
Ho scelto Melbourne come prima tappa del mio viaggio in Australia perché tutti quelli che ci sono stati mi hanno detto che è la città che assomiglia di più a Berlino in questa parte del mondo. In generale, da tutti Melbourne è considerata la città australiana più europea.
Sono atterrata un lunedì mattina di vento gelido e di tempesta, dopo un weekend di veglia trascorso viaggiando. Un primo termine di paragone piuttosto azzeccato. Ho passato le 19 ore successive profondamente addormentata in un ostello a poco prezzo, il giorno dopo ho camminato un po’ in centro, ho assaggiato l’aria, ho annusato le strade, ho lasciato che i colori e le forme mi attraversassero in fretta la memoria, e poi me ne sono andata. Mi sono rifugiata a lavorare in un bed and breakfast a 40 km dalla città, sul Monte Dandenong, in mezzo alle vinerie e ai pascoli della Yarra Valley, in un paese che non era un paese, era un grappolo di case senza nome cresciuto a tradimento su una strada di passaggio. Volevo tenere Melbourne a distanza di sicurezza, studiarla dall’alto, flirtare con lei senza essere presa.
Provo sempre un desiderio di possesso quando arrivo in una città nuova: deve essere subito mia, voglio intensamente che la sua storia mi entri nelle ossa, voglio sapere quali vicoli profumano di brioches e quali puzzano di piscio di cane, desidero riconoscere la sagoma dell’edificio dietro l’angolo prima di averlo svoltato, voglio andare nel bar che mette i Ramones di lunedì sera e in quello dove fanno il gin tonic più a buon mercato.
Ma allo stesso tempo vorrei anche che la città rimanesse una sconosciuta, che si nascondesse e mi lasciasse insoddisfatta, che si comportasse come una bambina capricciosa e avesse la sostanza di uno di quei sogni complessi, dal significato che hai sulla punta della lingua ma non riesci ad afferrare. Gli anni mi hanno regalato la capacità sottile di misurare l’equilibrio fra quello che voglio sapere e quello che è meglio rimanga un segreto. Se una volta mi sarei buttata a capofitto e l’incapacità di fare tutto subito mi avrebbe frustrata ferocemente, oggi invece circumnavigo il desiderio e lascio che si espanda senza farlo straripare, e vedo in questa abilità che ho appena appreso una traccia della donna che devo ancora diventare.
Flinders Street è il raccordo anulare di Melbourne, è la Potsdamer Platz di Berlino e la Piazza Maggiore di Bologna, un posto dove ti puoi dare appuntamento ma in cui poi non hai nessuna intenzione di restare. C’è il fiume che passa sotto alla stazione. La Yarra si insena nel fianco sinistro della città come una singola lisca di pesce ferrosa, iniettando di metallo i ponti, i grattacieli, i musei e i negozi del centro, agglomerati argentei alla mercé dei turisti appena arrivati e golosi del rapido, semplice e familiare fruire del viaggio. Ma le sponde della Yarra sono anche sprazzi verdi fatti per le biciclettate, che ricordano l’Isola dei Musei di Berlino e i tratti più centrali della Sprea, comprese le sue palme fuori luogo a farle da contorno.
Ci sono parti del CBD di Melbourne che più di Berlino mi ricordano Bologna. Il Queen Victoria Market assomiglia al Mercato delle Erbe di Via Ugo Bassi e i portici li ritrovi nella Block Arcade e nell’antica galleria, la Royal Arcade.
Per vedere le somiglianze con Berlino bisogna spostarsi a nord e ad est, nei quartieri di Fitzroy, Collingwood, Richmond, Coburg e Brunswick. Bisogna abbandonare le spiagge di St Kilda e i suoi appartamenti eleganti e un po’ freak, aperti sul mare, accoglienti e caldi come degli harem, ci si deve lasciare alle spalle le vie pulite del South Yarra e le casette residenziali di Elwood ad un piano, che si espandono in orizzontale come un oceano di mattoncini di lego, ché tanto in Australia di spazio ne hanno da buttare. Bisogna andare là dove il sole batte di meno e le crepe iniziano a insudiciare gli edifici, dove i senzatetto per strada maledicono le stelle ad alta voce e dove alle cinque di pomeriggio si sentono uscire i Dead Kennedys dalle finestre dei bar. Dove tutto diventa più trasandato – ma mai povero – e più sexy.
Il biglietto per Melbourne l’ho comprato il giorno in cui è morta mia madre. Solo andata. Solo io. Volevo mettere più distanza possibile tra me e il pezzo di me che sarebbe rimasto a casa e che avrebbe continuato a soffrire. Mi sono scissa a metà lasciando la mia parte pesante da sola a terra a farsi trascinare dal lutto e dai rimpianti in un precipizio, mentre la mia parte leggera avrebbe preso il volo. Possibilmente per non tornare più. Per restare distante e per aria per sempre.
Ma la vita è un affare strano e ci si innamora sempre prima di partire, o probabilmente ci si innamora proprio perché si sta partendo. Così per i primi giorni in Australia mi sono trovata a guardare da lontano una città in cui forse volevo vivere e ad avere un rapporto a distanza con una persona con cui forse volevo stare, mentre io ero ancora divisa a metà e non sapevo bene che forma avrei avuto una volta tornata tutt’uno.
Mi sono sentita per la prima volta di nuovo intera il pomeriggio in cui sono tornata a Melbourne. Era un mercoledì grigio e io sono andata alla spiaggia di Elwood, mi sono seduta sulla sabbia, che è opaca quando non c’è il sole, sembra che i granelli siano stati sostituiti per scherzo con briciole di pane. Non c’era nessuno, solo un cielo basso, pachidermico e sbiadito che si mischiava all’acqua, e io sono stata assalita da quel sentimento commuovente di presenza sovrumana che mi prende quando non penso né al presente né al passato. E ho capito che bisognava andare avanti.
Allora ho camminato attraversando tutta la città, sono passata vicino al luna park di St Kilda con le sue ruote panoramiche che sembrano creste di punk che ti fanno la boccaccia, ho virato a destra superando i Royal Gardens di fretta, perché ne avevo abbastanza di natura, volevo il cemento. Ho seguito Punt Road, una strada larga, trafficata ed assordante, fino a quando dopo quasi tre ore sono arrivata in quel posto che avevo visto la mattina in treno, che mi aveva chiamata e a cui io avevo risposto. A Richmond ho iniziato a trovare degli scorci di Berlino.
Quello che mi aveva attirata di Richmond era l’atmosfera che si sprigionava dagli edifici scrostati e dai colori terrosi, dai divani rotti abbandonati fuori dalle case e dalle viuzze strette con i muri a vista. In realtà non c’è tanto da fare là. Si trovano casoni abbandonati tanto suggestivi quanto concretamente senza scopo una volta che li si è guardati, negozi a poco prezzo per gli standard australiani e qualche bar di locals con la musica dal vivo.
Ho deciso che non era abbastanza e ho continuato a camminare, un po’ più a ovest, un po’ più a nord, perdendomi in vie tristemente anonime, confusamente uguali, incrociando solo signori distinti con il cappello a spasso con i cani. Poi finalmente sono arrivata in Johnston Street.
Johnston Street è diventata il mio punto di riferimento, un po’ come lo era all’inizio a Berlino Oranienstrasse.
La mia prima serata in Oranienstrasse la trascorsi prima al Franken e poi al Roses, che sono distanti pochi metri l’uno dall’altro fisicamente, ma concettualmente fra loro passano cento correnti di pensiero. Il Franken è un rock pub storico, dove da decenni ci si raccoglie prima e dopo i concerti all’SO36, altra venue simbolo di Kreuzberg. Le pareti sono tappezzate di poster di concerti degli anni passati, specialmente roba punk e hardcore. I Boucing Souls, i Bombshell Rocks, i Pennywise, mi sembra. A me il Franken fa impazzire perché se non sei tedesco e se non ti atteggi a punk i baristi ti trattano come immondizia. Io vengo servita sempre per ultima. Lo apprezzo.
Il Roses invece è una meringa glassata fuxia ripiena di brillantini e cattivo gusto. Le pareti di moquette rosa contornano quadri della Madonna lampeggianti, mentre coppie gay amoreggiano sui divanetti senza paura di dare spettacolo. Anzi, con l’intento di dare spettacolo. Si deve soffrire di una forma molto grave di autismo per non conoscere gente al Roses, lo spazio è talmente irrisorio da costringerti a parlare come minimo con il tipo che hai seduto di fianco, almeno per chiedergli scusa per il gomito che gli stai continuamente infilzando nelle costole.
A Melbourne, Johnston Street percorre come una carovana colorata e malandata i quartieri di Collingwood, Fitzroy e Carton. Piccoli bar si alternano a piccoli negozi di vestiti e di dischi, che si alternano a piccoli ristoranti etnici e a piccolissimi café. Mi chiedo come in una terra così grande gli edifici riescano ad essere così piccoli.
La mia prima serata in Johnston Street l’ho trascorsa in quella che forse è la zona più punk, a Collingwood, al Bendigo Hotel. In Australia tanti pub si chiamano “hotel” perché una volta potevano servire alcolici solo gli esercizi commerciali provvisti di qualche camera da affittare agli ospiti, poco importava se le stanze venivano effettivamente usate o erano solo un escamotage. Il Bendigo Hotel assomiglia al Wild at Heart di Berlino: musica grezza, banco e tavoli di legno, arredamento gotico tendente al kitsch. Quella sera hanno suonato quattro gruppi noise, i volumi erano altissimi, quasi intollerabili, e io ho conosciuto John. John aveva gli occhi azzurrissimi, era timido e parlava sottovoce, io ero assordata, parlavo poco e facevo di continuo sì con la testa. Chissà come siamo diventati amici.
Tutta la zona che circonda Johnston Street sembra una protesi di Kreuzberg, starnutita da una Germania raffreddata a 14mila chilometri di distanza e riadattata all’emisfero australe. Brunswick Street, Smith Street, Gertrude Street, ad esempio, sono un susseguirsi di birrerie artigianali, vinoteche, bettole becere, negozietti di cianfrusaglie, sexy shop, kebabbari e ristorantini esotici all’ultimo grido. Il paesaggio urbano è una ricostruzione vintage del far west, una skyline di casette basse e malconce dai tetti che sembrano ante di un saloon. La gente passeggia in abiti troppo trasandati per non essere tali di proposito e con tagli di capelli da cifre a due zeri. Quelli che sono poveri davvero li riconosco subito perché hanno sul volto un’espressione familiare, la stessa che avevo io un paio di anni fa. I senzatetto si stringono intorno ai negozi di liquori, i Mr. Liquor, e ti sorridono aprendo le loro ammiccanti e generose voragini rosee, abissi che mal celano le pene che stanno passando.
A Melbourne c’è tanto di Berlino: l’amore per l’arte e per il deviante, per la musica e per il sociale. Ci sono apertura al futuro e apertura di confini, accettazione, solidarietà, voglia di cambiare. Al Lentil as Anything (gioco di parole con il nome della band new wave australiana Mental as Anything) si trova un po’ di tutto questo. Si tratta di un’associazione basata sul pay as you feel, paga quello che ti senti, e Melbourne ne ospita tre sedi. Io sono capitata per caso in quella di Abbotsford, ricavata da un ex convento e circondata da un orto e un bellissimo giardino. Riduttivamente, si può dire che il Lentil as Anything è una catena di ristoranti, ma in realtà credo rappresenti bene lo spirito di una città che vuole cambiare le regole di un sistema sociale isolante ed escludente, proponendone una variante etica più sostenibile. I pasti, esclusivamente vegani, sono preparati da volontari con le verdure coltivate nell’orto ed altri ingredienti a km zero. Vengono inoltre spesso ospitate esibizioni, mostre, cineforum e lo spazio è aperto ai rifugiati. Il fatto che l’associazione si sia trovata a gestire debiti ingenti perché la media di donazione per pasto era di 3 dollari scarsi (circa 2 euro) la dice però lunga sulla crisi culturale che stiamo vivendo.
Non sono rimasta a Melbourne abbastanza a lungo per poterne dare un quadro completo, ma posso raccontare cosa ho sentito.
Ho sentito che la gente vive leggera, che l’arte ha un qualcosa di beato, che i musicisti di strada hanno un tetto sotto al quale tornare, quando hanno finito. La vita prosegue in una dimensione protetta, lontana miliardi di chilometri dalla storia, quasi immune dalla paura di un attentato, appena toccata dal bagaglio emotivo di una civiltà che per mille volte è cambiata, è rinata, ha dovuto soccombere. Questa è la città giusta per chi ama l’arte e si è messo il cuore in pace, non ha mai avuto una bestia dentro che lo sbrana, oppure è riuscito a saziarla in qualche modo e adesso non la deve più soffrire mentre gli pianta le unghie nello sterno.
La mia impressione è che la lontananza e la storia recente dell’Australia conferiscano un connotato superficiale all’esistenza sull’isola. Per dirla in un modo eloquente ma poco simpatico, mi pare che Melbourne stia facendo bene tutto quello che sta facendo Berlino, ma con lo spirito di qualcuno che ci è arrivato copiando.
Forse si sente un legame solo con i luoghi a cui si assomiglia, e io mi sento ancora un po’ scissa come Berlino, piena di vecchi conflitti che stento a risanare, minacciata da dentro e da fuori da forze che dovrei, ma non riesco a controllare. Melbourne invece non soffre, prospera sulla sua giovinezza, è rassicurante e graziosa.
Berlino ha le rughe, piange di nascosto e non si fa mai prendere da nessuno, mentre Melbourne è una ragazza bionda con un top bianco che ti chiede indicazioni su dove deve andare.
Quando ho lasciato Melbourne era un altro giorno grigio, mi sono alzata in volo e l’ho salutata dall’alto pensando che probabilmente si trattava di un addio. Ma uno di quegli addii lievi e dolci, che si danno quando non si sente la voglia di ritornare.
REDAZIONE
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