Ciò che distingue la Berlinale dal resto dei festival, su tutti Cannes e Venezia, è la sua radice popolare. La Berlinale è il festival della gente, quei dieci giorni in cui ogni sala, ad ogni ora, in ogni angolo della città, è piena zeppa di persone a cui interessa essere parte della festa. Che sullo schermo passi un documentario vietnamita di due ore o un ancora più lungo film filippino in competizione, l’importante è esserci. Il segreto di Berlino è aver trovato l’equilibrio perfetto fra le necessità di mercato che ogni festival di questo genere deve soddisfare e una formula che mette al centro di tutto il pubblico.
I numeri, in questo senso, non mentono. La Berlinale ogni anno stacca più di 300.000 biglietti, con 20.000 professionisti in arrivo da 130 paesi e 4.000 giornalisti a coprire l’evento: in termini di partecipazione, è di gran lunga il festival più grande al mondo.
L’edizione 2018 ha regalato una grande sorpresa. L’Orso d’Oro è andato al film rumeno Touch me not, dell’esordiente Adina Pintilie, la cui riflessione sul contatto fisico, a metà fra documentario e fiction, era stata unanimemente stroncata da tutta la stampa presente a Berlino . Orso d’Argento invece per Twarz (Mug) di Malgorzata Szumowska, un film intenso e forte, che commentiamo più avanti all’interno di questo articolo.
Ecco tutti i premi della Berlinale 2018 assegnati dalla Giuria Internazionale.
Orso d’oro per il miglior film – Touch Me Not di Adine Pintilie
Orso d’argento premio della giuria – Twarz di Malgorzata Szumowska
Orso d’argento per la miglior regia – Wes Anderson per Isle of Dogs
Orso d’argento premio Alfred Bauer per il film che apre nuove prospettive – Las herederas di Marcelo Martinessi
Orso d’argento per la migliore attrice – Ana Brun per Las herederas
Orso d’argento per il miglior attore – Anthony Bajon per La prière
Orso d’argento per la miglior sceneggiatura – Manuel Alcalá e Alonso Ruizpalacios per Museo di Alonso Ruizpalacios
Orso d’argento per il contributo artistico – Elena Okopnaya per costumi e design production di Dovlatov di Alexej German Jr.
Orso d’orso per il miglior cortometraggio – Men Behind the Wall di Ines Moldavsky
Orso d’argento per il miglior cortometraggio – Imfura di Samuel Ishimwe
Premio miglior Opera Prima, GFWW – Touch Me Not di Adine Pintilie
Menzione speciale Opera Prima – An Elephant Sitting Still di Hu Bo
Glashütte Original Miglior Documentario – Waldheims Walzer di Ruth Beckermann
Menzione speciale Miglior Documentario – Ex Pajé di Luiz Bolognesi
Premio del pubblico sezione Panorama – 1/Profile di Timur Bekmambetov; 2/Styx di Wolfgang Fischer; 3/L’Animale di Katharina Mueckstein
Premio del Pubblico sezione Panorama Documentari – 1/The Silence of Others di Almudena Carracedo and Robert Bahar; 2/Partisan di Lutz Pehnert, Matthias Ehlert and Adama Ulrich; 3/O processo di Maria Augusta Ramos
Twarz – di Małgorzata Szumowska – Competizione
Jacek è uno sbandato pieno di energia felice, che sfreccia per i paesini della provincia polacca a bordo della sua Fiat 126, mentre l’autoradio spara a tutto volume musica metal. Ha i capelli lunghi, il sorriso buono, una ragazza, Dagmara, di cui è innamorato e che sta per sposare.
Un giorno, mentre lavora come operaio alla costruzione di quella che diventerà la più grande statua al mondo di Gesù, ha un incidente, e la sua vita cambia. Sottoposto al primo trapianto di faccia mai eseguito in Europa, Jacek assume le sembianze di un mostro, lontano anni luce dai lineamenti dolci e armoniosi del ragazzo che avevamo conosciuto all’inizio, sullo schermo.
Attraverso il racconto dell’incidente di Jacek, il film ci racconta una Polonia di provincia ottusa e bigotta, le sue dinamiche familiari ipocrite, l’incapacità di trasferire i valori della religione cattolica nella vita di ogni giorno.
L’importante è costruire il Cristo di pietra, tutto il resto non importa.
Mauro Mondello
Las herederas – di Marcelo Martinessi – Competizione
La camera da presa apre la scena su una sala da pranzo, in mezzo un tavolo pieno di pezzi di antiquariato di valore. Eppure la visuale non è diretta su ciò che accade in quella stanza, ma segue una donna, che osserva, da un’altra angolazione, quello che sta accadendo: i più cari oggetti di famiglia vengono venduti a degli sconosciuti, a un prezzo irrisorio.
Comincia così la storia di Chela e Chiquita.
Il racconto delle vicissitudini della coppia si muove sullo sfondo di un Paraguay profondamente diviso. Da un lato le vecchie famiglie agiate, eredi dei dominatori coloniali, dall’altro la gente povera e ignorante, costretta in carcere a causa di un debito non pagato.
Forse è proprio quella iniziale, la scena più rappresentativa di tutto il film. Lo spettatore è distaccato da tutto ciò che accade, eppure è lì che sta il racconto della storia, il resoconto di un periodo di vita. Due donne, una costretta ad affrontare il mondo da sola per la prima volta, l’altra costretta ad andare in carcere.
Las herederas è un film distaccato, freddo, noioso, in certi punti addirittura fastidioso da guardare. Alcuni movimenti di camera sembra siano pensati per dare al film un “tocco da festival”, eppure paiono piuttosto ovvi e poco originali, un “vorrei ma non posso” cinematografico.
Maria Rovagna
Malambo – di Santiago Loza – Panorama
In un lavoro che combina biografia, finzione e documentario, scopriamo il malambo, danza folcloristica della tradizione argentina.
Gaspar, il protagonista, ci racconta il sogno-incubo di tanti ragazzi, che fin da piccoli si allenano per prepararsi alla competizione del Festival Nazionale di Malambo. Finché non si riesce a vincere, ci si ossessiona, nonostante la vittoria non offra nessuna possibilità di scampo: dopo aver superato con successo la prova, non si può più partecipare. Si è invece “condannati” ad allenare le generazioni future o ad esibirsi sulle navi da crociera, come animali da circo.
In 71 minuti Malambo fa venire voglia di scoprire il mondo. Musica, sogni e speranze che schiudono confini fisici e mentali.
Elisa Barrotta
Yocho (Foreboding) – di Kiyoshi Kurosawa – Panorama Special
I film che più mi piacciono sono quelli catastrofici, in cui l’umanità è minacciata da un’imminente invasione aliena. Scoprire che a Berlino arrivava un film intitolato “foreboding”, in italiano “brutto presentimento”, è stata dunque una bella sorpresa.
Nella prima ora si naviga tra il dramma sentimentale intimista (ma con una musica che ricorda più “X-Files” che “In the mood for love”) e un thriller ispirato ai romanzi di Haruki Murakami, dunque con un elemento soprannaturale, ma di natura filosofica-spirituale: in questo caso si tratta di concetti che vengono “rubati” dagli alieni, come quelli di famiglia o orgoglio, lasciando i poveri umani immemori dei sentimenti ad essi collegati. Così succede che una ragazza, in apertura del film, vede suo padre come un fantasma, perché non sa più cosa significhi “famiglia”. Tutto scorre lento ed intimo. Poi, nella seconda metà, arriva la soddisfazione: se nelle superproduzioni americane troviamo, di solito, tripudi patriottici di fronte a folle ansimanti, in Yocho, si gode di un’ironia, di una modestia, decisamente giapponese. Ed è proprio in questo che risiede tutto l’interesse del film.
Maya Bretonnière
Dovlatov – di Alexei German Jr – Competizione
Evidentemente ho un problema, visto che questo film è piaciuto praticamente a chiunque, tranne che a me.
La storia del grande scrittore russo Sergei Dovlatov, tratteggiata attraverso la cronaca di alcune giornate nella Leningrado del novembre 1971, io l’ho trovata stucchevole, un po’ banale, fotografata con una luce da sceneggiato televisivo, spesso maldestra ed ingenua nel tentativo di portare sullo schermo le angosce, i sogni, le illusioni deluse, di tutta una generazione d’artisti nella Russia del tempo.
Dovlatov è stato uno scrittore che ha conosciuto il successo soltanto da morto, dopo una ventina d’anni passati in esilio negli Stati Uniti. In questo film lo vediamo passare di fallimento in fallimento, di rifiuto in rifiuto, scoprendo la mortificazione cui era sottoposta tutta l’arte creativa nell’URSS comunista. Le intenzioni sono buone, eppure l’insistito ritratto bohemienne che viene fuori dalle immagini di Alexei German Jr. finisce per sembrare eccessivo e caricaturale. Mancano le sensazioni vere e non c’è traccia, ad esempio, della vita di allora nella società quotidiana. Tutto è chiuso in un recinto dal quale non è possibile uscire e da cui i personaggi, per primi, vengono fuori in maniera artificiale.
M.M.
Horizonti – di Tinatin Kajrishvili – Panorama
Ecco un bel film da festival, uno di quei lavori per i quali è importante esistano rassegne come la Berlinale, che aprono una porta sul cinema di tutto il mondo. Horizonti è ambientato in Georgia e ci racconta la storia di un cambiamento radicale nella vita di Giorgi, la cui esistenza è stravolta dalla separazione con la moglie.
Tutto gira intorno al tentativo di rappresentare la condizione di isolamento dentro cui si chiude il nostro protagonista, di entrare dentro le sensazioni che si scatenano in un individuo al termine di una relazione. La solitudine di Giorgi, che si trasferisce in una laguna abbandonata, lontano da tutto, arriva potente, pesante, attraverso sequenze lunghe, silenzi ed un ritmo contemplativo che riescono ad infondere nel film un tono sereno, ma anche un presentimento oscuro.
E’ il contrasto fra bellezza e disperazione, portato in scena in maniera lucidamente essenziale, che rende Horizonti un film duro e importante. C’è una riflessione continua, ineluttabile, sulla condizione di un uomo le cui uniche certezze si sono sgretolate, una riflessione cui anche lo spettatore viene “costretto”, per mezzo dell’identificazione emotiva che si sviluppa, empaticamente, con Giorgi.
M.M.
Old Love – di Park Kiyong – Forum
C’è una coppia che s’incontra per caso in aeroporto, nella zona fumatori, e a malapena riesce a parlarsi. I due si rivedono, per le strade della capitale sudcoreana, e ripercorrono le tappe del loro amore giovanile, senza grande entusiasmo a dire il vero, un po’ impacciati, un po’ invecchiati. Sembrano a loro agio soltanto nella loro estraneità al mondo.
È inverno, fuori fa freddo. Lentamente, dopo alcuni tentativi attorno a tavoli imbanditi di mille ciotole, i due vincono il loro pudore e osano chiedersi delle rispettive vite. Naufragi di ogni tipo, sentimentali, familiari, economici, si fanno largo.
Non è nemmeno abbastanza forte il desiderio di riprovarci, o forse solo un attimo, sotto l’effetto dell’alcol. Rimbombano i loro fallimenti, sui passi lenti delle scale di un albergo ad ore, o sui marciapiedi ghiacciati della città di provincia che tornano a visitare.
Tutto è immobile. L’unica cosa ad arrivare in modo brusco e imprevisto sono i titoli di coda. Ed è anche la prima volta, in 90 minuti, che abbiamo motivo di rincuorarci.
M.B.
In den Gängen – di Thomas Stuber – Competizione
Se avesse vinto la Berlinale, non avrebbe rubato nulla. In den Gängen è una storia semplice, tenue, schietta. Si seguono le avventure di Christian (il bravissimo Franz Rogowski), un ragazzo timido e impacciato, di poche parole, che è appena stato assunto come impiegato in un grande supermercato.
Dopo aver fatto amicizia con Bruno, che lo prende sotto la sua ala protettiva nel reparto Bevande, Christian s’innamora di Marion, e tutti fanno il tifo per lui. Il regista, Thomas Stuber, apre una finestra inedita sulla Germania Orientale, che viene qui rappresentata lontano dagli stereotipi classici che di solito la contraddistinguono. Quello che vediamo è lo scorrere quotidiano nella vita di gente che lavora; i desideri, le paure, i pensieri e le speranze. Eppure ogni cosa ha un tocco di realismo magico, di purezza lieve, che rende questo film più rilevante di quanto ci si potrebbe immaginare. Sempre in bilico tra commedia e dramma, ci si appassiona alle vicissitudini dei personaggi, dei quali si assorbe il sentimento sotterraneo che a intermittenza viene fuori dallo schermo: la speranza.
M.M.
Para Aduma – di Tsivia Barkai Yacov – Generation 14plus
Il film si apre sulla folta chioma della protagonista, di un biondo veneziano che ha un che di miracoloso sotto il cielo di Gerusalemme Est. Viene subito da chiedersi se è lei, ad essere metaforicamente evocata dal titolo, in inglese “red cow”, in riferimento al capitolo del Libro dei Numeri in cui la nascita di una giovenca rossa costituisce un annuncio imminente dell’arrivo del messia.
A un certo punto spunterà fuori anche la giovenca che, nonostante da quelle parti di terra non ce ne sia poi tanta, possiede un pascolo tutto per sé, sulle colline della città santa. Ci resterà sino alla fine, il dubbio su chi sia veramente l’agente della redenzione, in questo film.
La nostra protagonista dalla biblica capigliatura, Benny, orfana di madre e figlia di un rabbino fra i più ortodossi e influenti della comunità, deve fare i conti con la folgorante scoperta della propria sessualità: l’attrazione per la bella e mora Yael.
Non si tratta dell’ennesima variazione sul tema “coming-of-age” e “coming-out”, ambientato nel contesto più avverso possibile. Per quanto siano estremi i contrasti, in Para Aduma è tutto discretamente sottinteso, espresso nel linguaggio metaforico delle profezie religiose.
Così il miracolo preannunciato dal titolo si rivela essere la naturalezza con la quale la nostra eroina prova ad emanciparsi, tra metafore e scene di masturbazione nei bagni della scuola: è bello da vedere, quasi quanto i suoi capelli.
M.B.
Black 47 – di Lance Daly – Competizione (fuori concorso)
Fra il 1845 e il 1849 la Grande Carestia che colpì l’Irlanda causò la morte di un milione d’irlandesi e l’emigrazione forzata di altrettanti. Fu l’inverno del 1847, Black 47 appunto, ad essere il più duro, ed è proprio quella stagione ad essere raccontata nel film di Daly.
Michael Feeney rientra a casa dopo aver combattuto per l’esercito inglese in India e Afghanistan, solo per scoprire che la madre è morta di fame e il fratello è stato impiccato, mentre quello che resta della famiglia, vale a dire i nipoti e la moglie del fratello, vengono uccisi oppure muoiono di freddo sotto i suoi occhi. Gli resta così soltanto la vendetta.
Sguardo perso nel vuoto e barba rossa, il nostro protagonista, James Frecheville, sta a metà fra Rambo e Il Monco western di Sergio Leone, ma con una fissità espressiva che ne pregiudica il giudizio attoriale. Black 47 sa bene cosa vuole raccontare, è però un peccato non abbia lavorato un po’ meglio su personaggi che sono invece tagliati con l’accetta, soprattutto avendo a disposizione una grande faccia come quella di Hugo Weaving, che fa del suo meglio, ma resta impigliato in una messa in scena squadrata.
Imperdonabili, poi, le cadute patetiche sui contadini denutriti, passati in rassegna con una morbosità che mortifica l’obiettivo di racconto storico.
M.M.
Last Child – di Shing Dong-seok – Forum
Di solito, vedendo film ambientati in posti esotici, mi sento avvolta dal “Fernweh”, la nostalgia del lontano, soprattutto a Berlino, d’inverno. Non mi è accaduto con questo primo lungometraggio del sudcoreano Shin Dong-seok.
La cittadina anonima di provincia è triste, grigia, polverosa. Ci vive una coppia di mezza età, che ha appena perso l’unico figlio. I due non mostrano segni distintivi, così come la casa nella quale vivono, e sono caratterizzati soltanto da un dolore che sembra senza fondo.
Li seguiamo nel loro lutto, nello slancio del padre verso un coetaneo taciturno del figlio, nel più cauto movimento della madre per uscire dalla sua prigione di dolore. Fino alla scena finale, sembra non si salvi nessun personaggio: ciascuno corre spietatamente dietro ai propri interessi. Il cibo, di solito anche nei film più tetri una fonte di temporaneo svago per lo spettatore, rimane intatto sui tavoli, ad illustrare l’impossibile comunicazione tra i protagonisti. Le storie di bullismo tra teenager, tessute come tela di fondo, sono almeno l’occasione di verificare quanto le espressioni di noia negli adolescenti siano un fenomeno oramai universale.
Con sollievo scopro a fine proiezione che il giovane protagonista ha mosso i primi passi in una delle numerosissime soap-opera coreane, e mi riscalda l’idea che quel mondo colorato e naif provenga dallo stesso paese di provenienza di questo Last Child.
Perfino il freddo berlinese, uscendo, mi dà sollievo.
M.B.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin