Il giorno che mi trasferii a Berlino faceva freddo, si gelava. Era giugno.
Pioveva ed Alexanderplatz era brutta e cattiva e mi diceva che nulla sarebbe stato come lo avrei immaginato.
Ricordo che, alla ripartenza dei miei genitori, che mi avevano accompagnato, davanti all’entrata di un monolocale di Bänschstraße in Friedrichshain, con i miei libri ancora chiusi in scatole che avevo rubato di notte dal parcheggio sul retro di un’Esselunga di Milano, mi presi il loro pianto, quel lasciarsi andare incerto, segreto come le cose che nascondi perché sono tue e di nessun altro. C’era una tristezza malinconica, ma precedente alla malinconia, in quel gesto, che mi accartocciò le viscere e mi spense il cuore per un istante di cui percepisco ancora il riverbero. C’era l’abbandono, che prima o poi dobbiamo prendere e mettere in tasca, tutti.
Da quel giorno sono passati tre anni e mezzo.
Una sera io e Francesco eravamo seduti su di una panchina, proprio davanti a casa mia. Lui in quell’appartamento ci aveva vissuto prima di me, per qualche mese.
Tirava un vento che non ho mai sentito più forte nella mia vita. Era un vento che si portava via ogni cosa. E noi eravamo lì e non volevamo alzarci, perché parlavamo dell’Italia e di quello che eravamo stati. Ridevamo e a volte diventavamo cupi dentro i ricordi peggiori, entrambi guardandoci le ginocchia o le nocche delle dita. Poi tornavamo a chiacchierare.
Quella sera, il vento si portò via tutto. Tutto. Tranne la nostra amicizia e un paio di consapevolezze, che ancora adesso teniamo strette in mezzo a noi, ogni volta che ci incontriamo.
Tre mesi dopo ci trasferimmo a Neukölln, nella parte profonda, come la chiamiamo qui. Eravamo io, Giulia e i nostri due cani, Ninja e Nacho.
Una mattina mi svegliai e dalla finestra vidi che nell’hinterhof, la corte interna, un ragazzino turco, magro come una barzelletta, si muoveva rapido e a petto nudo su di un vogatore. Ogni giorno si prendeva i suoi venti minuti per fare esercizio. Non ci parlammo mai, io e lui, una volta soltanto lo salutai, con un cenno di mano, curvo su me stesso come sono sempre stato. Non rispose ed io pensai che, probabilmente, non mi considerava alla sua altezza. Oppure nella postura giusta. Su con quella schiena, perdio.
C’era il fiume dall’altra parte della strada, ed ogni giorno facevo tappa sul ponte. Guardavo di sotto l’acqua torbida che scorreva e poi alzavo gli occhi lontano verso l’alba da un lato o il tramonto dall’altro. E lì restavo per un po’. Poi tornavo a casa.
In quel mio gesto c’era tutto, quel tutto che mi mancava terribilmente e che mi faceva sentire migliore e peggiore e bene. A volte semplicemente mi faceva sentire come sapevo di dovermi sentire. Ed era comunque un bene, in fondo.
Non ho mai gettato nel fiume nemmeno un mozzicone di sigaretta.
Ho passato tre dita lungo il Muro, mentre camminavo, ad occhi chiusi. Era il giorno in cui mi convinsi che quella città era diventata anche mia, almeno un po’. Quando li riaprii il Muro e quelle mie tre dita mi dissero che non era vero. Non lo sarebbe mai stata.
Va bene così.
In fondo.
Berlino è questa cosa. È una carogna.
Ma noi ci innamoriamo delle cose sbagliate. Ammettetelo.
C’era un buio tremendo a Berlino. Ed io lo amavo. L’ho sempre amato. Perché mi copre e mi protegge.
Anche quando siamo rinchiusi dentro i momenti più difficili, abbiamo diverse via di fuga, ma non le vediamo, perché siamo ciechi di rabbia, di desolazione, di preoccupazione.
Mi chiedevo di continuo se davvero avessi preso la decisione giusta, a trent’anni, con due cani cuccioli e una fidanzata che mi sentivo di dover proteggere. Perché quella decisione era stata prima mia, poi sua. Mai loro.
Quasi non mi accorsi che la risposta era lì davanti a me, circoscritta in una bella giornata d’inverno di sei mesi dopo il mio arrivo.
Volevo scrivere e scrivevo, ma volevo anche insegnare. Quando mi presentai davanti alla Sprachschule dicendo chi fossi e cosa proponevo, tutto mi aspettavo tranne che un Sì, ok. Proviamo.
È così che ho iniziato ad insegnare scrittura creativa per gli italiani a Berlino.
Il mio secondo laboratorio, un mese e mezzo dopo, diventò, ancora prima di cominciare, due laboratori, perché la richiesta era tanta.
Entravo nell’aula presentandomi ai ragazzi come un orso che era stato in Vietnam ed aveva un braccio bionico che utilizzava per raccontare le sue storie. E la mia.
E poi chiedevo Questa storia è reale?
Incredibilmente nessuno mi rispondeva mai immediatamente. Restavano ad osservarmi qualche secondo, poi scoppiavano a ridere oppure abbassavano gli occhi sui loro quaderni, imbarazzati per me.
Ora quella presentazione fantasiosa non la racconto più e un po’ mi manca.
Qualche giorno fa, in uno scambio mail tra me e Paolo Cognetti, lui mi dice che bisognerebbe riuscire a crescere, ma conservare allo stesso tempo le cose importanti.
Io gli rispondo che crescere e conservare le cose importanti sono tra i compiti più difficili di un essere umano.
Però dovevo dare un nome a tutto questo e non era facile. Perché tutto questo non era solo il nome di un laboratorio di scrittura creativa. Era il cambio di una vita e le sue molteplici prospettive future.
Non riesco più a contarle le volte che mi hanno chiesto perché il mio progetto si chiamasse Le Balene Possono Volare.
Racconto sempre la stessa cosa, che è vera, ma che conserva anche lati che non voglio rivelare. Come quel pianto trattenuto e segreto che i miei genitori si portarono con loro il giorno che ripartirono per l’Italia, dopo aver avermi abbandonato ed essere stati abbandonati.
La storia è questa: quando ero piccolo io, mio fratello e mio padre guardavamo insieme i documentari naturalistici. Al contrario di molti altri bambini, e di mio fratello, io non mi annoiavo davanti allo schermo e anzi guardavo affascinato le immagini che scorrevano e portavano con loro quel mondo fantastico e crudele. Ogni volta che sullo schermo apparivano delle balene, io impazzivo di gioia. Osservavo questi esseri mastodontici muoversi come delle ballerine obese gravi tra le onde e sotto il pelo dell’acqua. Era la cosa migliore che il mondo avesse concepito. Erano anche migliori del mio papà, della mia mamma e della Nutella.
Il giorno che dovevo decidere quale nome dare al mio nuovo progetto, ero in collegamento Skype con Davide, uno di quelli che considero al pari di un fratello, nonostante non ci siano gradi di parentela reali. Uno di quelli che ho lasciato a Milano.
Gli dissi che mi ero inceppato e non riuscivo a trovare il nome giusto.
Lui, che sapeva, mi suggerì di chiamarlo Balene.
Ed io, come disse quel tale, capii tutto in un sol momento.
Il resto vien da sé, come quel ragazzotto toscano che durante la sua prima lezione mi disse: è un nome di merda, allora potevi chiamarlo “Gli Asini Possono Volare.”
Eccerto.
Un laboratorio che diventò due, e poi tre che diventarono sei. E poi quello di teatro, di fotografia, di illustrazione, di canto, di musica, di reportage, che diventarono uno due tre.
Intanto Berlino scorreva via come l’acqua su ogni cosa. Ed io mi sono sposato in un torrido inizio luglio, dentro una cappella sconsacrata. Ci maritò un funzionario che parlava tedesco, traduceva una traduttrice giurata balbuziente, Giulia era la donna più bella che avessi mai visto, io ero impacciato dentro le scarpe classiche e le bretelle e i miei tatuaggi si vergognavano di essere lì, sull’epidermide e a contatto con la camicia di seta buona. Convincemmo tutti a vestirsi con abiti tipici degli anni 20. Mia zia si vestì anni 80. I miei amici vennero dall’Italia e all’Italia tornarono. Io immaginavo di prenderla in braccio ed uscire dalla cappella per essere tempestati di riso. Invece la tenni per mano e ci lanciarono dei coriandoli. Ma io chiusi gli occhi e abbassai lo stesso la testa, per proteggermi, perché così avevo visto fare a tutti i matrimoni a cui ero stato invitato. Però erano coriandoli di carta e sorrisi. Su con quella schiena, figliolo.
Poi aprimmo il Wale Café, dopo otto mesi di lavoro. La nostra tana, la chiamiamo ancora così. A volte, quando entro e mi chiudo la porta alle spalle, immagino di essere nella pancia della balena. Dentro ci sono tutte le mie cose: i libri, la musica, le persone che amo.
Talvolta è difficile.
Difficile ascoltarmi e prendere le decisioni. Difficile fermarmi e pensare. Difficile afferrarmi e riportarmi a terra oppure tornare giù per riportarmi su.
Un giorno Francesco mi ha detto che non rinnega nulla di quello che ha fatto e di cosa è stato. Io mi chiedo se davvero non ha rimpianti oppure se l’uomo nero degli sbagli arriva anche da lui a mordergli i piedi di notte, come quando viene da me, appoggiando i miei incubi al cuscino e sussurrandomi: non dimenticare che potevi essere e potevi non essere.
Però lo capisco e cerco di ricordarmi quello che sono stato ogni volta che mi dimentico di quanto sono cambiato venendo in Germania.
Ecco perché dico a tutti che Berlino mi ha salvato la vita. Lei, la carogna. Lo vedete quanto è bizzarro?
Se durante la notte, nel silenzio totale, appoggiate di profilo la testa al cuscino, potete sentire, attraverso il timpano, come del liquido che scorre ritmicamente. Forse è più un rumore impercettibile di seta che si sposta, come se a lavorarci ci sia una formica particolarmente audace. È il rumore del sangue che dalle vene scorre al cervello, nella scatola cranica. Questa è l’idea che mi sono fatto io. Se è vero, quello è il rumore del battito del vostro cuore.
A me serve a ricordare quanto siamo semplici, in realtà.
Era luglio anche quando è nato Jonah Blu, durante la notte, in una stanzetta a luci soffuse di un ospedale in riva alla Spree.
Dopo otto ore di travaglio, Giulia era spossata e non riusciva a spingere. Lui era lì. Pronto. Ma Giulia non ne aveva più. L’ostetrica le ha avvicinato le labbra all’orecchio e le ha sussurrato: Forza, è il tuo bambino e vuole venire al mondo.
E Giulia si è mangiata la vita, l’ha ingoiata e la spinta fuori in quell’ultimo urlo disperato, sotto forma di nostro figlio.
Jonah, come Giona nella bocca della balena.
Intanto oggi spengo tre candeline e scrivo questa mia dichiarazione d’amore.
Saranno tre giorni di festeggiamenti dentro la pancia della balena, al Wale Café. Ho cercato, in un modo o nell’altro, di ringraziare tutti quelli che hanno permesso a Le Balene di esistere e compiere tre anni. Ci saranno concerti, reading, un vernissage, dj set, cibo e altro ancora.
Sono passati tre anni da quando ho dato un nome a tutto questo e ho creduto in quello che stavo facendo. Ho ricominciato una vita lasciando l’Italia e smettendo di rincorrere Berlino. Non serviva e non servirà mai. Lei non si fa prendere.
Però sono qui e cavalco una balena che può volare. Sulla schiena, insieme a me, ci sono tutti quelli che ci hanno creduto veramente.
E facciamo ancora surf, bucando le nuvole.
Buon compleanno.
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immagine di copertina: Landswehrkanal, Maybachufer. Neukölln. 2013
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin