Quando mi sono trasferita a Berlino, nel 2014, ho vissuto per un po’ di tempo in uno di quegli edifici costruiti in epoca comunista che sorgono vicino ad Alexanderplatz. Li si riconosce da lontano, perché sono tutti identici: stessa altezza, stesso numero di finestre e balconi, stesso colore grigio. Questi vecchi palazzi per molti stanno lì a rappresentare un ricordo indesiderato, una testimonianza detestata dei tempi passati, quando la città era ancora divisa in due. Enormi e massicci, questi fabbricati sono circondati da un mondo che non gli appartiene più e spesso anche i loro abitanti sembrano vivere in un altro tempo. Anziani, quasi sempre, che vivono in uno delle migliaia di appartamenti cubicolari sulla Karl Marx Allee e che dopo la Caduta del Muro di Berlino hanno visto il loro mondo sgretolarsi, nel bene e nel male. Ricordo una conversazione con un’anziana signora del mio palazzo che s’impegnava nel convincermi a non credere a quanto si dice sulla STASI, perché la maggior parte delle storie sono false, propaganda dell’Occidente.
Le parole della signora mi sono tornate in mente quando ho assistito allo spettacolo teatrale Atlas des Kommunismus, di Lola Arias & Ensemble. I protagonisti non sono attori o artisti, o per lo meno non tutti, ma calcano il palco del Maxim Gorki Theater per raccontare la loro storia, una descrizione attraversata dal comunismo e dai suoi ideali. Sulla scena non si alternano caratteri “speciali”, nessuno qui ha contribuito con il suo apporto straordinario al cambiamento del mondo. Sono tutte vite normali, lavori per lo più ordinari. Ed è proprio per questo con loro si può instaurare un legame: potremmo esserci noi, lì sul podio, a raccontare la nostra storia, se solo fossimo vissuti in quel momento, nella DDR.
C’è una donna, si chiama Salomea Genin, ed è la donna che più di tutte mi ha fatto pensare alla mia vicina di casa. È anziana, forse la più affaticata del gruppo, e talvolta deve leggere le battute su dei cartoncini bianchi che tiene stretti in mano. È ebrea e per questo da bambina è fuggita in Australia, per scampare al nazionalsocialismo. Salomea è uno di quei casi più unici che rari di persona che ha deciso di passare da Ovest a Est, mossa dal desiderio di contribuire alla realizzazione di un vero stato socialista del cuore d’Europa. Una volta nella DDR, diventerà una spia, oggi pentita, al servizio della Stasi.
Anche Monika Zimmering è una nostalgica della Deutsche Demokratische Republik. Pure lei, come Salomea, voleva costruire una nazione socialista. Ci provò con tutte le sue forze, s’impegnò moltissimo per la causa e forse per questo non riesce a esprimere alcun pentimento per le tante scelte difficili che ha dovuto compiere nel tempo. Monika rimpiange il passato, nonostante spieghi come allora non ci si potesse fidare nemmeno dei vicini di casa.
La vera star dello spettacolo è Matilda Florczyk, una bambina. Lei è nata a Berlino, parla fluentemente tedesco e inglese ed è in un certo senso la guida dello spettatore. Matilda pone le domande giuste, quelle a cui anche noi vorremmo avere una risposta, ma che probabilmente non oseremmo mai chiedere, per quella sorta di pudore che l’età adulta ci impone.
Che Atlas des Kommunismus vada in scena proprio al Maxim Gorki di Berlino, non è di certo casuale. Il teatro, che deve il suo nome all’omonimo autore sovietico, padre di quella corrente letteraria nata per glorificare i valori del comunismo russo, fu costruito a Mitte nel 1952 e, fino alla caduta del Muro, fu portavoce di quella che era all’epoca l’unica arte riconosciuta dal partito, quella che i critici definirono come realismo socialista. Dopo la fine della DDR il Gorki si trovò, come molti altre entità dell’Est berlinese, in piena crisi. Considerato il ruolo propagandistico della cultura nella DDR, come ci si doveva comportare nei confronti di realtà che erano state in qualche modo supportate e riconosciute dalla Germania dell’Est?
Jana Schlosser ad esempio, star del punk negli anni ’80, non aveva mai potuto calcare il palco del Gorki, nonostante i suoi continui tentativi. La sua arte non piaceva al governo della DDR e non è difficile immaginarne il motivo: divenne famosa per una canzone dal titolo “Nazis wieder in Ostberlin”.
L’atlante delle storie racconta vite ordinarie, normalità in cui tutti si possono ritrovare: la coppia di ragazze sedute di fronte a me, il signore anziano che mi è accanto e a cui si sono offuscati gli occhi quando Jana Schlosser ha cantato dal vivo Nazis wider in Ostberlin, io. Le vite di Salomea Genin, Monika Zimmering, Ruth Reinecke, Jana Schlosser, Mai-Phuong Kollath, Helena Simon, Tucké Royale e Matilda Florczyk potrebbero essere quelle di tutti noi.
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