L’altro giorno, per curiosità, ho provato a fare il solito giochino del digitare su un motore di ricerca un termine specifico e vedere quali ricerche più popolari visualizza come primi suggerimenti.
L’ho fatto, per la precisione, con il termine adjunct professor, che in italiano equivale al titolo di professore a contratto.
Questo è quello che è uscito:
L’ho fatto perché anche io, da oramai tre anni, sono professore a contratto in una grande università italiana.
L’ho fatto perché, come tutti i miei colleghi, non posso fare il professore a contratto di lavoro, visto che, nella più rosea delle ipotesi (quella in cui riesco ad insegnare diversi corsi all’anno) non riuscirei comunque minimamente a sopravvivere con il compenso stabilito per le effettive ore di insegnamento previsto dai contratti per collaboratori esterni.
Nella giungla professionale dell’accademia italiana, la posizione del professore a contratto è probabilmente una delle posizioni peggiori.
Se gli assegnisti di ricerca non se la passano comunque bene, possono contare su un compenso mensile, che per quanto irrisorio, non si discosta da quello medio italiano. Certo, si tratta di contratti annuali che non possono essere rinnovati se non per qualche anno, ma la condizione di professore a contratto implica un tipo di precarietà qualitativamente diverso.
I professori a contratto sono una categoria di docenti esterni al personale strutturato di una determinata università, hanno un compenso orario che è deciso dall’ateneo stesso all’interno di un certo range. Nell’università sempre più deprivata di fondi dell’ultimo decennio, si fa impiego massiccio di personale esterno, in modo da rispondere alla necessità di coprire la didattica spendendo infinitamente meno che se si assumessero professori incardinati.
In questi anni in cui ho lavorato anche come professore a contratto la preparazione delle lezioni non mi è stata mai retribuita, così come tutto il lavoro relativo alla preparazione e distribuzione dei materiali e la parte di comunicazione e ricevimento con gli studenti.
Non avendo diritto neanche ad un ufficio ho sempre dovuto trovare luoghi di fortuna per incontrarmi con gli studenti: aule imprevedibilmente vuote da cui venivamo sfrattati perché iniziava una lezione, bar dell’ateneo, atri delle biblioteche universitarie.
Dopo il primo corso che ho insegnato, nel 2015, ho lavorato un mese come cameriera in un ristorante di campagna, servivo i ravioli al formaggio di fossa e versavo il vino tenendo la mano sinistra dietro la schiena.
Nell’ultimo corso che ho insegnato, invece, mi sono trovata a dover dare in escandescenze per poter registrare l’esito dell’esame degli studenti, visto che per eseguire la firma digitale è necessario un lettore collegato al pc che si trova solo nei computer dell’università.
Al mio ennesimo tentativo di chiedere la disponibilità di uno di questi computer mi è stato risposto dal personale tecnico-amministrativo che “non sapevano” se ci fossero aule libere in cui svolgere la registrazione. Dietro alle loro belle facce una serie di schermi che davano su aule disabitate, in cui una telecamera a circuito chiuso riprendeva silenziosamente l’assenza di umanoidi. Sempre dietro, un calendario con le aule e le ore per cui erano state prenotate.
A seguito di una crisi isterica (dovevo partire per Berlino, dove abito, il giorno successivo, per tornare a lavorare ed era mio dovere istituzionale e legale procedere con la registrazione dell’esito dell’esame) un donnone biondo mi ha scortato come un animale randagio in un’aula dove si trovava una congrega di docenti strutturati, tutti oltre i quarantacinque anni, che chiacchieravano amabilmente.
Il donnone si è scusato con i suddetti, indicandomi con un cenno imbarazzato, come a chiedere se un senzatetto potesse usare il portico dell’università per passare la notte.
Altre volte sono stata chiaramente schernita dallo stesso personale, quando ho chiesto di farmi delle fotocopie e mi hanno detto che solo i docenti potevano fare richieste del genere. Li ho guardati con le palpebre a mezz’asta e ho detto “sono io la docente”. Mi è stato risposto “Ah beh, siamo a posto”.
La gerontocrazia dell’accademia italiana è un fatto sociale totale, per dirla con le parole di Marcel Mauss. Ne è imbevuta l’università, dai docenti agli studenti. Ne è imbevuta la società in cui l’università si colloca. Ne è imbevuta mia nonna e gli adolescenti stupiti dal vederti uscire la sera e non avere la barba bianca o la stempiatura o le rughe e un’aria da pazza isterica consumata dal sapere. Trent’anni non sono pochi per insegnare in università ma ritagliarsi un minimo di credibilità senza mettersi i tailleur di Tammy Preston nella nuova serie di Twin Peaks diventa complicato. Soprattutto visto che se anche ti vestissi come Tammy Preston l’equazione implicita donna+giovane+sexy= sesso con ordinario costituirebbe un nuovo passo falso per la tua credibilità. Sarebbe in ogni caso più efficace che adottare uno stile, diciamo, casual, perché gli studenti avrebbero comunque paura dei tuoi legami con qualche pezzo grosso (uomo).
È un luogo comune ormai come le nuove generazioni di ricercatori e neo-dottorandi siano state sostanzialmente escluse dalla possibilità di trovarsi un impiego stabile in università.
La figura del ricercatore, una volta a tempo indeterminato, è stata trasformata in una figura a tempo determinato dalla riforma Gelmini (tre anni, di cui solo due rinnovabili). I bandi sono praticamente inesistenti, e passare direttamente al successivo grado, quello di Professore Associato, è ovviamente fantascienza pura, dal momento che la candidatura di un neodottorato con qualche pubblicazione e nessuna o quasi esperienza didattica è quasi ridicola di fronte a quella di ricercatori pre-Gelmini, con una decade almeno di didattica da strutturati, decine di pubblicazioni, un paio di monografie, ruoli istituzionali all’interno dei consigli di facoltà, e altro.
Per questo chi ha meno di quarant’anni è stato sostanzialmente tagliato fuori, probabilmente per sempre, dall’università in Italia.
Ma se non ci sono nuove assunzioni, i docenti raggiungono i limiti di età e gli studenti, sebbene le immatricolazioni abbiano subito un drastico calo, continuano ad esserci. Chi insegna? Facile: i professori a contratto, gli assegnisti e qualche volta i dottorandi stessi.
Francesco Vitucci, segretario nazionale dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani (Adi), che ha più volte denunciato la situazione, così si è espresso: “Lo Stato negli ultimi anni ha utilizzato il precariato per far fronte ai tagli e far sopravvivere l’istituzione dell’università. Se non avesse sfruttato gli assegnisti di ricerca, i professori a contratto e altre figure, le università sarebbero implose“.
Chi accetta un lavoro come professore a contratto si suddivide in tre gruppi: un esercito di neodottorati che stanno provando a prendere borse internazionali e postdoc all’estero, docenti di lungo corso che hanno precedentemente avuto assegni di ricerca o sono stati ricercatori a tempo determinato, persone che passano da anni in una condizione liminale dentro/fuori l’università, svolgendo molteplici corsi all’anno e avendo una loro attività da liberi professionisti, ma che non producono quasi nulla dal punto di vista della ricerca/pubblicazioni.
Io riesco ad andare ad insegnare perché ho un lavoro da freelance nel mondo dell’arte berlinese, lavoro quattro giorni a settimana e posso assentarmi per periodi senza (almeno per ora) rischiare di rimanere senza lavoro una volta tornata.
Questa condizione mi rende comunque difficilissimo fare quello che un neodottorato dovrebbe fare: cercare opportunità di lavoro, pubblicare i frutti della sua recente ricerca prima che diventi anacronistica ed irrilevante, partecipare a convegni per farsi conoscere dalla comunità scientifica.
Con un lavoro quasi full time fare la doppia vita da ricercatore wannabe è definitivamente complicato. Consiste più che altro in una vita noiosa e ininterrottamente lavorativa. Venerdì inizio il mio secondo lavoro, quello volto alla revisione della tesi per le pubblicazioni, quello di scrittura di progetti di ricerca da proporre per borse internazionali in cui la percentuale di successo si aggira attorno al 5-10 % quando va bene, e quella di preparare le lezioni che svolgerò fra qualche settimana.
Se l’Università italiana versa in condizioni disastrose e tappa i buchi con i professori a contratto, anche quelle estere ed in particolare quella americana (che conosco un po’ meglio) non si discostano granché da questa tendenza globale.
La precarizzazione del mercato del lavoro – accademico in primis – ha portato ad una ridistribuzione delle disuguaglianze su assi generazionali importanti, oltre a quelle classiche basate su razza, genere e classe. Mentre le istituzioni accademiche si trincerano e trovano modi per marginalizzare un gruppo sempre più nutrito di ricercatori prodotti dal sistema universitario che non hanno la possibilità di essere riassorbiti dal sistema stesso, la valutazione del singolo sul mercato diventa una questione di numeri. I numeri delle citazioni che un articolo ha totalizzato, la posizione delle riviste o case editrici con cui si è pubblicato, il ranking delle università in cui ci si è dottorati o in cui si è prestato servizio. La rilevanza di un ricercatore è diventata una questione di contabilità.
Le persone che riescono a sopravvivere a questi anni di precariato selvaggio a 3.000 euro all’anno costruendosi un curriculum competitivo nel mercato accademico sono solitamente dotate di mezzi economici fuori dalla norma. Gli altri, che come me si arrabattano tra lavori improvvisati e delocalizzazioni strategiche, non hanno il tempo materiale di accrescere il valore del proprio peso accademico e rimangono ai margini del sistema per qualche anno finchè non hanno la fortuna di vincere un postdottorato o un assegno di ricerca, che rimanda la precarietà di qualche anno (con la speranza che il postdoc porti più pubblicazioni, punteggio e visibilità) oppure quando si stancano di provare e abbandonano l’impresa.
Io non so bene a che gruppo apparterrò, per adesso dico no alla tentacolare vita notturna berlinese e mi chiudo in casa a studiare. Game of Thrones è finito e mi mancano solo due puntate di Twin Peaks, quindi immagino la svolta sia vicina.
In copertina: l’aula magna della Pontificia Università Gregoriana – © Wikicommons
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