Avete presente com’è fatto un cartone di LSD? Ci si immagina sia come un francobollo, un grande francobollo illustrato, pieno di colori brillanti che promettono avventure meravigliose. Invece di solito è un pezzetto di cartoncino anonimo dal design piuttosto deludente, grande come metà unghia.
Nella cucina del mio appartamento entra un bel sole, è una delle prime giornate calde di primavera, i bambini dei vicini giocano nel cortile, il mio coinquilino sta facendo colazione con i Corn Flakes e ride davanti a un video di gente che cade. Io, pinzetta per le sopracciglia che sorregge il minuscolo acido in una mano, forbicina delle unghie nell’altra, sto tentando di capire a quanto corrisponda una “microdose”. Nel pomeriggio, infatti, andrò ad un seminario sul microdosing, una pratica molto diffusa nella Silicon Valley startuppara, che consiste nella regolare assunzione per un dato periodo di tempo di una piccola dose di una sostanza psichedelica. Di solito LSD, funghi, o l’arbusto iboga. I risultati che si spera di raggiungere sono disparati: dall’aumento della concentrazione e della creatività, al trattamento di alcune patologie, come ansia e depressione. Sembra che Bill Gates e Steve Jobs, ad esempio, ne siano stati grandi estimatori. Io ci vado soprattutto per capire se sia solo l’ultima trovata radical chic e, il miglior modo per farmi un’idea, è quello di testare innanzitutto la teoria su me stessa.
Concludo l’operazione chirurgica del taglio dell’acido adottando l’unico criterio che ho a disposizione per decidere quanto prenderne: il caso. Le linee guida parlano di 6 – 20 microgrammi di LSD, ma non c’è modo che io capisca a quanto corrispondano, o che sappia quanto LSD effettivamente c’è in quel specifico cartone. Questa è la prima (grande) falla nel sistema: determinare con esattezza il dosaggio da assumere. Non sono la sola ad aver avuto problemi con le quantità. Nei giorni precedenti ho condotto un sondaggio su Facebook, sfruttando quel mio piccolo Tripadvisor personale che è Free Advice Berlin, un gruppo dove gente che vive a Berlino si scambia consigli riguardo la vita in città. Ho chiesto se qualcuno avesse avuto esperienza con il microdosing, quali siano gli effetti sperimentati e se a Berlino sia una pratica diffusa, con dietro una comunità di supporto e per lo scambio di best practices.
Mi hanno risposto in tre:
Fabi:
“Il problema all’inizio era il dosaggio. Trovare quello adatto non è stato immediato e, se durante il microdosing prendi una “macrodose”, finisce che sballi tutto. Ma poi ho trovato un equilibrio. Preso in dosi così piccole, l’LSD non si può nemmeno considerare una sostanza psichedelica: ti rende più attivo, più curioso, più consapevole del tuo lato spirituale e più creativo. Mi sentivo coerente con me stesso e ho capito cosa veramente volesse dire essere coerente con me stesso, senza preoccuparmi del giudizio degli altri. Ho trovato un lavoro che mi realizza e poi ho smesso, perché ho sentito di aver concluso il progetto con successo”.
Christian:
“Ho provato il microdosing con i funghi allucinogeni. È stato un disastro. Era quasi impossibile dosarli in modo adeguato e gli effetti sono stati diversi: ogni tanto inesistenti, ogni tanto troppo forti per essere considerati “micro”.
Will:
“Ho iniziato il microdosing per trattare la depressione. La mia terapista aveva un paziente con un background simile al mio per il quale ha funzionato, quindi mi ha suggerito di provare. L’ho fatto per un mese ogni 4 giorni, prendendo 20-30 microgrammi di LSD. Per i sei mesi successivi, ho sperimentato un’onda di energia e di positività incredibile e, fino ad ora, non ho sentito il bisogno di rifarlo. Io ho trovato appoggio nella comunità di registi/attori che frequento, dove la pratica è abbastanza diffusa. A parte loro, so di tanti americani che ne fanno uso per trattare malattie come la depressione, perché qui non ti tirano addosso lo Xanax per curare qualsiasi cosa come negli Stati Uniti”
A parte quella con Christian, il quale però ammette di non essere stato un praticante disciplinato, le conversazioni con i ragazzi di Free Advice mi incoraggiano a pensare che ci sia dello spessore dietro all’idea del microdosing. Quindi mi infilo il mio angolino di cartone sotto alla lingua, vado a leggere un libro al parco, dove sorrido molto alle piante e vedo dei colori particolarmente vividi, e poi faccio una passeggiata fino alla sede del seminario.
La Kulturbrauerei è una ex fabbrica della birra convertita a spazio culturale, uno dei pochi esempi di architettura industriale a Berlino. Il passaggio dal sole ai cunicoli dell’edificio è piuttosto traumatico, vado su e giù tre o quattro volte da scale attorcigliate ed anguste, l’odore di umidità e di segatura sale dal naso fino a crearmi una coltre dietro la fronte, ma trovo il posto assolutamente affascinante. La sala dove si tiene il seminario è un grande spazio dal soffitto altissimo, illuminato solo soffusamente. Ospita più o meno 200 posti a sedere e il pubblico è composto per lo più da giovani tra i 20 e i 35 anni, che se dovessi usare solo una manciata di aggettivi per descrivere, li definirei “modaioli” “americani”, “upper-class” e “stuonati”. Io mi sistemo in una delle prima file e al centro, cosa che a posteriori troverò strana, perché tendo ad avere crisi di panico e vertigini quando mi trovo in una stanza affollata e la via d’uscita non mi è immediatamente raggiungibile. Per tutto il tempo del seminario, però, mi sentirò perfettamente a mio agio. La ragione potrebbe essere la microdose di LSD, l’effetto placebo, il fatto che il clima è rilassato e la gente in fondo mi piace, oppure un mix di tutte e tre le cose.
Introduce la conferenza un rappresentante della German Psychedelic Society, associazione che ha organizzato l’evento. Dopo di lui sale sul palco Paul Austin, guru del microdosing e fondatore di The Third Wave, movimento che ha lo scopo di portare nella cultura di massa l’uso consapevole delle sostanze psichedeliche normalizzandolo, eliminando i tabù al riguardo e sfruttandone le potenzialità. Paul è un giovane americano in pullover nero, che dietro ogni suo gesto ha ore di coaching in public speaking e che sa bene come modulare la voce e come dare enfasi alle parole per sterzare l’attenzione a suo piacimento. Quando parla dello stigma che esiste attorno agli allucinogeni e invita tutti a scegliere se rimanere nell’ombra o combattere per la causa, per un attimo i contorni della sala sfumano, dietro a lui vedo un esercito di uomini in kefiah pronto a marciare, e Paul si spoglia del suo maglioncino alla moda per vestire di un simbolico eskimo, mentre il microfono nelle sue mani diventa un lunghissimo chilum con il quale guida la rivolta. In ogni caso, a parte qualche esagerazione melodrammatica – normale se devi saltare di conferenza in conferenza con l’obiettivo di convincere il pubblico della causa che stai portando avanti e se sei americano – tutto quello che lui e l’audience dicono mi sembra sensato. Lo riassumo in qualche riga, per dare un resoconto chiaro.
Come funziona:
Due volte alla settimana per uno, due o tre mesi, si assume una microdose di una sostanza psichedelica, più precisamente:
– 6 / 20 milligrammi di LSD
– 0,2 / 0,5 grammi di funghi
– 4 / 6 milligrammi di iboga.
Quali sono gli effetti che si spera di ottenere e che chi lo ha provato dice di aver ottenuto:
– Aumento della creatività
– Maggiore energia fisica
– Migliore equilibrio emotivo
– Spiritualità più accesa.
Quali sono gli svantaggi:
A parte quelli derivanti da un dosaggio sbagliato, qualcuno dice di sperimentare insonnia, iperattività e di trovarsi di fronte ad emozioni difficili da processare. Non ci sono prove di effetti negativi per la salute mentale e fisica derivanti da un’assunzione a lungo termine, questo anche perché gli studi a riguardo non sono ancora sufficientemente ampi.
La conversazione e il dibattito si concentrano soprattutto sugli effetti benefici che la normalizzazione degli psichedelici e la loro disponibilità al pubblico potrebbero avere e sull’ipocrisia di un sistema sociale che li proibisce a priori, senza indagare a fondo le implicazioni di un loro uso corretto (o scorretto). Si parla molto del senso di autenticità sperimentato dopo l’assunzione, di come essa aiuti a vivere più a fondo i momenti di condivisione con l’altro, di come acuisca il senso di comunione con la natura e di come la demonizzazione di queste sostanze sia peculiare della nostra società e abbia cause storiche, politiche e religiose precise, ma non si basi su un dibattito aperto e razionale al riguardo. Non mi stupisce che ci siano tante persone interessate all’argomento. Il materialismo e il paradigma scientifico stanno perdendo adepti, discipline nuove e complesse come la meccanica quantistica scuotono la nostra percezione lineare del mondo, i più intuitivi sentono le colonne della civiltà che tremano e i più curiosi ficcano il naso in modelli teorici nuovi perché sanno che c’è il bisogno di un cambiamento. Insomma, il microdosing va inserito in un movimento culturale ben più ampio, profondo e sfaccettato del semplice “sballo”, come si potrebbe essere tentati di etichettare la pratica di primo acchito, probabilmente influenzati proprio da quella stigmatizzazione della sostanza che opera su di noi ad un livello più o meno inconscio.
Nella seconda parte del seminario, Paul invita qualche volontario sul palco per parlare della propria esperienza e per condividere con tutti qualche tip and trick.
Il primo è un uomo sulla cinquantina che viene dal Portogallo e a Berlino ha fondato una comunità basata sull’auto sostentamento e la meditazione. Lui è un esperto, pratica il microdosing da anni con i funghi che si coltiva da solo e ne elogia le qualità. Sentirlo mi infonde un senso di tiepido benessere e mi sorprendo a sorridere e a fare sì sì con la testa con approvazione mentre parla, anche se in verità quello che dice mi suona abbastanza nuovo.
La seconda è una ragazza canadese che ha iniziato da 3 mesi e va nel dettaglio di tutto quello che ha provato. “Sono molto più concentrata nel mio lavoro, che è un normale lavoro di ufficio di 8 ore al giorno. Quando sono su una task, non mi distraggo, sono completamente assorta, riesco a selezionare bene gli input. Ma questo funziona con le cose su cui ho controllo. Se leggo le notizie su facebook o sui giornali, ogni tanto mi sento sopraffatta, perché non c’è niente che possa fare al riguardo. Sento l’esigenza di incanalare la mia energia in qualcosa che dia dei frutti concreti. Con i miei colleghi sono diventata più socievole, parlo con gente che prima non degnavo di uno sguardo. In generale, consiglio di non farlo tutti i giorni, altrimenti si perde la percezione degli effetti e non si riesce a monitorare ciò che succede”.
La terza è una britannica dal mento che punta in alto, che mi immagino in un film di Virzì dire un sacco di volte Tvansumanesimo ad un’occupazione d’istituto, mentre la madre la aspetta di fuori in completo Armani nella Mercedes nuova. Non ascolto nulla di quello che dice.
L’ultimo è un ragazzo simpatico di Glasgow che si è appena tolto un dente del giudizio e nel giro di dieci minuti si scola due birre. Parla di come il microdosing renda più nitida e obiettiva la percezione del suono e di come questo sia importante se si lavora nell’ambito musicale. Anche lui, come davvero tanti durante il seminario, sottolinea il senso di autenticità e di coerenza che ha sperimentato.
Durante l’ultimo giro di domande si alza l’unica voce fuori dal coro. Una ragazza solleva il dubbio della legittimazione di assunzione di sostanze psicoattive per diventare più funzionali nel sistema sociale dove siamo inseriti. Io trovo la questione interessante, ma Paul commette il brutto errore di zittire la sovversiva che, anche se stava iniziando ad usare toni piuttosto polemici, avrebbe meritato una risposta meno sbrigativa.
-1 punto al tuo public speaking asset, Paul.
È una questione spinosa, questa, ma per affrontarla si dovrebbero prima sbrogliare tanti nodi, come definire cosa significhi “funzionale” e se abbia senso parlare di “funzionalità” in questo contesto, capire quanto la pratica di assunzione di sostanze psicoattive sia spesso stata parte fondamentale della civiltà umana, e capire se il microdosing, piuttosto che renderci più schiavi di questo sistema sociale, magari invece aiuterebbe a cambiarlo. Troppa roba da elaborare adesso.
Ci sono altri due punti che mi lasciano perplessa. Il primo, è la mancanza di una base scientifica che giustifichi gli effetti. Paul durante il seminario dice ripetutamente che ora abbiamo la scienza ad appoggiarci, ma io da una ricerca su Google non trovo nulla di davvero scientifico ad appoggiarli.
Il secondo è il problema etico del procurarsi delle sostanze incentivando un mercato illegale. Presupponendo che nel mercato nero della droga non succedano cose propriamente carine, andare in giro ad incoraggiare la gente ad alimentarlo, mi sembra conduca ad un dilemma morale non secondario. A seminario finito riesco a scattare di fronte alla fila di gente che vuole parlare con Paul – che non è tanto difficile perché tutti si muovono in modo incredibilmente lento – per fargli direttamente la domanda.
“Sai, di solito chi ti vende l’LSD non è lo stesso spacciatore che ti vende la cocaina” mi dice, e mi dipinge il ritratto di questo spacciatore dalle ali d’angelo che diffonde la droga come Gesù Cristo i pani e i pesci.
“Bullshit”, gli dico.
“I funghi te li puoi coltivare da sola”, mi dice.
“Sì ma voi parlate anche dell’uso di sostanze che non crescono naturalmente” gli dico.
La cosa va avanti così per qualche minuto, poi lui finalmente si scrolla via di dosso un po’ di retorica, il suo tono di voce cambia, la testa si incassa leggermente nelle spalle facendogli perdere la postura alla maschio alfa, e mi dice che sì, è vero, questo è un problema a cui purtroppo non può e non sa dare una soluzione al momento. Sembra turbato e sembra sincero.
Indubbiamente, si sta operando in una zona grigia, pericolosa e contraddittoria e capisco che fino a quando ci sarà – se ci sarà – una liberalizzazione, così continuerà ad essere. Ma d’altronde, spesso le liberalizzazioni avvengono proprio di conseguenza ad un’attività di preludio svoltasi in una zona grigia, pericolosa e contraddittoria.
Non c’è molto altro da dire a questo punto. Saluto Paul con un abbraccio e mi rifaccio strada nei tunnel della Kulturbrauerei bramando il sole come una lucertola.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin