Il vagone della U1 è meno affollato del solito. Vi è un netto contrasto tra i sedili sporchi ed i nostri vestiti eleganti. Una signora ci guarda perplessa, forse per via del nostro incessante ed italico gesticolare. Seduta di fronte a noi, una bambina chiacchiera con il padre. Avrà più o meno due anni, indossa un tutù azzurro, una giacca viola, dei leggings grigi ed è scalza. Penso che neanche in mille anni mia madre mi avrebbe fatto uscire di casa vestita così. “Non sei in ordine”. Accanto a lei una ragazza stralunata osserva il soffitto, in preda a quella che potrebbe essere un’apparizione mariana o l’abuso di qualche sostanza psicotropa. “Il Lawrence d’Arabia della metro di Berlino” è l’unica descrizione possibile di come la sciarpa gialla che le cinge la testa la faccia sembrare ai miei occhi. In fronte, un codino. In mano, un tupperware vuoto con i resti di quella che avrebbe potuto essere zuppa di zucca. L’odore nauseante che ne fuoriesce fa sembrare il viaggio più lungo di quanto non sia realmente. Destinazione è la Deutsche Oper, dove Faust, opera lirica di Charles Gounod tratta dall’opera “Faust e Marguerite” di Jules Paul Barbier e Michel Florentin Carré e dal “Faust. Der Tragödie erster Teil” di Johann Wolfgang Goethe, ci attende.
Finalmente siamo arrivate. Il teatro è molto più piccolo di come me lo fossi immaginato. Non ha nulla dello stile maestoso dei teatri italiani, nessuno stucco dorato, né balconate traboccanti di velluto rosso. La mia poltroncina, la numero 25, è priva della targhetta che ne indica il numero. Strano, per un teatro così prestigioso.
Salvo due signori giapponesi seduti accanto a me, la nostra fila è completamente vuota. Sarà che 95 euro di biglietto non sono esattamente quello che si dice un prezzo popolare. L’età media è nettamente superiore alla nostra ma la cosa non mi dispiace. Di sicuro staranno in silenzio, sempre che non si addormentino a metà del primo atto.
“Opera”. Vado indietro di vent’anni, sono in macchina con nonno. Aspettiamo che moglie, mia nonna, torni da uno dei suoi interminabili giri. La sua testa è china sulla Settimana Enigmistica. Come sempre, dall’autoradio escono le note della Marcia trionfale dell’Aida. Gloria! Gloria!
All’epoca pensavo che la noia del mondo fosse tutta condensata in quell’abitacolo; solo dopo, in un’aula universitaria, seduta ad una lezione di Diritto Amministrativo, avrei realizzato che non era così.
Il lungo sipario nero si alza lasciando spazio ad un’enorme colonna. La sua figura imponente si staglia su tutto, quasi deforme, come un gigantesco gomitolo di lana grigio messo al centro di una scatola vuota. Solo alla fine del quinto atto capirò l’immagine che mi si pone innanzi: una ragazza seduta ad un banco, sembra quasi una scolara. Silenzio.
Faust è un anziano in carrozzella dalla lunga barba bianca. Porta con sé catetere e flebo, montanti su una strana carrozzina dotata di luci lampeggianti. Mefistofele, da lui invocato dopo due tentativi di suicidio, non solo gli regala la perduta gioventù, ma lo dota anche di un completo rosa baby brillantinato che difficilmente lo spettatore potrà dimenticare. È talmente kitsch e pacchiano che ne resto quasi affascinata.
C’è poco di quanto uno si aspetterebbe da un’opera lirica in questo Faust. Dei cinque atti originariamente messi in scena da Gounod ne sono qui rimasti solo quattro. Ci sono le macchinine dell’autoscontro, abeti illuminati che neanche a Natale, c’è un pompino, ci sono colpi di pistola – sì, hanno svegliato metà della dormiente platea, nel caso in cui ve lo steste domandando -c’è una scritta lampeggiante, “YE$”, che domina il centro della scena per tutta la durata del quarto atto. C’è un ragazzo con un costume da coniglio ed un sacco di palloncini colorati. Ci sono molte immagini statiche e immagini dinamiche che scorrono e si inseguono – perché la parte del palco antistante la colonna è mobile e ruota portandosi avanti e indietro gli attori che compaiono e scompaiono dalla scena. La trovata sarebbe geniale, non fosse per il mal di mare che mi assale alla quarta entrata in scena.
I colori pastello sono una costante, sembra quasi che Sofia Coppola abbia assunto la regia. Non più Maria Antonietta, ma Faust, non più XVIII secolo, ma anni quaranta. Solo il Paese, la Francia, resta un’inalterata ambientazione. L’opera è in francese, mentre i sottotitoli che scorrono in tedesco ed inglese non sempre corrispondo tra loro.
In questa storia ci sono anche Marguerite, qui rappresentata come un misto tra Cenerentola, Bambi e la Fata Turchina, e la solita vecchia storia “Lui mi vuole. Lo respingo. Lui insiste. Io ci casco. Lui sparisce.” In questo caso lui torna pure, ma ormai è troppo tardi. Dopo quattro atti passati a soffrire finalmente la povera Marguerite decide di redimersi, rifuggendo Faust e Mefistofele e chiedendo perdono a Dio. Naturalmente, come in ogni opera lirica che si rispetti la morte regna sovrana. Quest’opera, però, è troppo pop perché Philipp Stölzl, al suo terzo lavoro come regista alla Deutsche Oper, si lasci sfuggire un’occasione così ghiotta come quella di una morte spettacolare, e allora Marguerite viene uccisa con un’iniezione letale. La scena vede in lei la figura centrale, ma simbolicamente c’è anche Cristo, stessa posizione delle braccia, stessa morte dovuta al giudizio popolare più che ad un reale reato commesso, ed infatti il coro intona: “Sauvée! Christ est ressuscité! Christ vient de renaître! Paix et félicité”.
I 180 minuti segnati sul libretto come durata dello spettacolo scorrono più veloci di quanto non avessi sperato, forse aiutati dalla bravura degli artisti in scena – spicca, tra tutti, l’interpretazione del pescarese Ildebrando D’Arcangelo, crudele Mefistofele. Cala il sipario.
Uscendo, non posso fare a meno di pensare che al posto di Faust, l’opera avrebbe potuto benissimo chiamarsi Marguerite. È lei il punto focale della storia, lei è la prima e l’ultima persona ad essere in scena. Marguerite è ingenua, casta e bambina e allo stesso tempo è oggetto del desiderio, vanità. È speranza disillusa e in continua illusione, quasi fino a sfiorare la pazzia. È strano come ci si possa sentire ancora oggi rappresentati da questo dualismo di forza e fragilità messo in scena per la prima volta nel 1859 a Parigi. La sua struttura morale fa quasi scomparire Faust, del tutto privo della capacità di prendere una decisione autonoma. Pare che l’età, anche in questo caso, non abbia insegnato nulla.
Calendario e prezzo dei biglietti sul sito ufficiale
Immagine di copertina: Faust © 2015, Matthias Baus
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