Non era facile procurarsi del materiale porno ai tempi in cui iniziai a farmi le seghe. Succedeva molti anni prima che internet arrivasse nelle nostre case, prima del modem a 56K e del suo gracchiare entrato di prepotenza nelle menti di quelli della mia generazione. All’epoca non c’erano mediateche online capaci di soddisfare ogni forma di perversione, bisognava quindi trovare altre fonti se non si voleva ripiegare sulla sola fantasia. Non che questa mancasse a un verginello di dodici anni alle prese con un mondo tutto da scoprire, ma con una media di tre stantuffate al giorno non bastava pensare al culo di Marta, la più bella della classe. La soluzione però ce l’avevo sempre lì: Kevin, il ragazzo dei porno.
Kevin di anni ne aveva quindici, ed era l’unico studente dell’istituto ad essere stato bocciato tre volte. Un teppista ma di quelli buoni. Adottava un bullismo sano, fatto di qualche schiaffone atto solo a ristabilire le gerarchie, le rare volte in cui qualcuno provava a mettere in discussione il suo status di maschio alfa. Il suo nome inglese non aveva alcun motivo apparente. Lui, come i suoi genitori, era nato e cresciuto nel mio paese, un luogo dimenticato da Dio in mezzo alla pianura padana. Padre alcolista, e madre sotto psicofarmaci, la sua famiglia tirava avanti solamente grazie alle sovvenzioni statali e a qualche piccolo espediente.
Kevin aveva una pupilla deformata che gli donava uno sguardo felino. Lui gonfiava la cosa sostenendo che con quell’occhio riuscisse a vedere al buio. «Roba ninja» diceva. Pochi ci credevano ma nessuno osava contraddirlo. D’altronde aveva più esperienze di vita di tutti noi assieme, e poi era l’unico ragazzo della scuola media ad avere già scopato. Che fossero cazzate o meno, a noi piaceva ascoltare le storie sporche che ci raccontava, con doverosa minuzia nei dettagli, durante le ricreazioni.
Kevin era per noi quello che oggi è Pornhub per milioni di persone. Ci procurava le copie de Le Ore, e dell’ancora più spinto Anal Club in cambio di Tegolini, crackers Doria, succhi Zuegg, e ovviamente della copertura delle spese arrotondate per eccesso. Non era pensabile, per un ragazzino di paese, comprare una rivista porno senza che l’edicolante avvisasse i genitori dello scellerato tentativo. Solo a Kevin riusciva l’impresa e la faceva per noi. L’unico compromesso era che i giornaletti dovessero prima passare al suo vaglio. Le pagine incollate erano lo scotto che dovevamo pagare per tanta grazia, una specie di ius primae noctis in chiave onanistica. I giorni in cui si sentiva magnanimo organizzava degli incontri in cui ci faceva vedere le videocassette hard del padre. Come un cineforum ma con sega sociale e senza dibatto. Alla meglio si discuteva su quanto magnificenti fossero le tette di Ilona.
Kevin, senza consultarmi, aveva deciso che tra i compagni di classe fossi io il suo migliore amico. La cosa non era esattamente reciproca ma non mi dava fastidio, se pensavo ai vantaggi che mi avrebbe portato in termini di inviolabilità. La scuola è una giungla, i ragazzini sanno essere spietati, e avere la protezione del più forte dell’istituto non poteva che tornarmi utile. Certo, la cosa non mi esimeva dal dovergli donare le mie merendine, ma almeno ero al sicuro dai bulli di rango inferiore. Forse gli stavo particolarmente simpatico o forse era più interessato all’Amiga 500 che avevo a casa, ad ogni modo, grazie a lui, la mia vita scolastica scorreva senza grossi problemi.
Veniva un paio di volte a settimana a casa mia, dopo la scuola. Mia madre cucinava per entrambi, poi salivamo in camera a giocare con l’Amiga, il computer che Kevin ovviamente non si poteva permettere.
L’Amiga 500 era il nipote del leggendario Commodore64. Era l’evoluzione della specie, la perfetta macchina da intrattenimento. L’Amiga era il futuro, e ce l’avevo in casa. Ben 512Kb di Chip RAM, un processore da 7,09 Mhz, e pure la ROM da 256Kb contenente il Kickstart, che nessuno sapeva cosa fosse, ma che tutti riconoscevano per il suo logo pixelloso che appariva all’accensione: la mano con il floppy.
Stava proprio nel floppy la vera rivoluzione. A differenza del vecchio Commodore, che aveva i giochi in cassetta, l’Amiga caricava i programmi tramite i dischetti rigidi da 3½, quelli con lo sportellino metallico semovibile che all’occorrenza serviva pure da antistress, anche se a quell’età lo stress mica sapevamo davvero cosa fosse. L’Amiga era velocissimo. Aveva un vero e proprio sistema operativo che lo rendeva a tutti gli effetti un personal computer e non un semplice giocattolo com’erano le console. Roba da hacker, prima degli hacker.
Anche se poi la ragione d’esistere dell’Amiga stava proprio nei suoi giochi. Sensible Software, Team17, Bitmap Brothers, erano solo alcune delle brillanti software house che avevano trovato in quella macchina la piattaforma perfetta per dare sfogo alla loro creatività. Ben lontane dal concetto di azienda che abbiamo oggi, quelle case erano per lo più formate da un esiguo gruppo di amici, o da qualche sviluppatore solitario, che portavano con loro la visione romantica dei nerd da garage. Sfornavano una perla dietro l’altra.
Avere l’Amiga significava non dover più preoccuparsi di cosa fare nel tempo libero, per quel suo catalogo pressoché infinito di giochi. Bastava procurarsi l’X-Copy, un programma per copiare i floppy, e aspettare pazientemente che il processo terminasse, con la speranza che non comparissero caselline rosse, altrimenti voleva dire che la copia era fallita e che il dischetto era da buttare. Seguivano quelle imprecazioni che avrebbero segnato per sempre il mio rapporto con l’informatica, le stesse che – da programmatore quale oggi sono – riemergono assieme ai bug del codice che scrivo. L’X-Copy rappresentava l’iniziazione alla pirateria. Usarlo significava abbandonarsi al lato oscuro, e accettare l’illegalità come parte del proprio quotidiano. Una figura cardine per portare a compimento il cammino verso il peccato era il pirata. Lo potevi trovare nei negozi di elettronica, che ancora avevano un senso all’epoca in cui le grandi catene non si erano già diffuse. Nella vetrina del negozio, tra un computer usato e qualche modello futuristico di joystick, scatole di videogame originali stavano in bella mostra. Erano chiaramente una copertura. Lo si poteva capire dalla coltre di polvere che le sommergeva e dal packaging bruciato dal sole, in cui le parti bianche tendevano ad un giallo nonna. Il vero commercio avveniva nel retrobottega dove l’X-Copy macinava floppy senza sosta. Il pirata consegnava la lista dei giochi, poi a casa ci si metteva a evidenziare quelli desiderati. Qualche giorno dopo averla riportata si tornava, con pochi spicci, a prendere il bottino che avrebbe monopolizzato interi pomeriggi.
Con l’Amiga si aveva un mondo a disposizione. O meglio, più mondi.
C’erano le avventure grafiche punta e clicca, come Beneath a Steel Sky, la saga di Goblins e, su tutti, Monkey Island che sarebbe bastata la sigla di apertura a renderlo un gioco memorabile. Così come memorabile era quella di Cannon Fodder. ‘War has never been so much fun’ cantava l’ideatore del gioco e, cristo, quanto era vero. La fischiettavo mentre facevo strage di commilitoni, che poi andavano ad arricchire di croci la collina memoriale di fine missione. E vittime di guerra le continuavo a fare sorvolando le vastità dei paesaggi isometrici con l’elicottero di Desert Strike, o muovendo di esagono in esagono i carri armati dello strategico Battle Isle.
Passavo dal costruire imperi con Sim City e Civilization al distruggere intere civiltà grazie a Populus, nel quale interpretavo un dio e quindi facevo un po’ quel cazzo che mi pareva. La stessa libertà che avevo nel crivellare un innocente quando vestivo i panni di un agente di Syndicate e, se arrivava la polizia, bastava armare il braccio bionico di lanciafiamme e il problema era risolto. Dal mondo cyberpunk si passava a quello fantascientifico di Alien Breed, che Dio solo sa quanto mi cacavo sotto nel percorrere le stanze labirintiche sapendo che presto sarebbe sbucato un alieno. E poi il fantasy di Eyes of the Beholder, un gioco di ruolo che, a proposito di labirinti, con i suoi dungeons non aveva nulla da invidiare.
Per equilibrare la massiccia dose di machismo e squartamenti bastava fare qualche partita ai platform tipo Rainbonw Island e New Zeland Story. Si ammazzavano i nemici anche lì ma nel primo a colpi di arcobaleno, e nell’altro tramite le frecce lanciate da un grazioso pulcino. E giù di sentimenti con le avventure di Another World e Flashback, che ancora ricordo il magone che per giorni mi ha accompagnato dopo averle finite.
Prendevo il volo con F/A-18 Interceptor e la sua incredibile grafica 3D, che poco importava se non riuscivo una sola volta ad atterrare senza schiantarmi, perché tanto di scendere da quel cacciabombardiere non ne avevo mai voglia. Volavo senza meta scrutando il paesaggio fatto di poligoni, dove il mare era di una sola tonalità di blu. E sempre dall’alto guidavo verso la vittoria i piccoli omini di Sensible Soccer, ancora oggi il più bel gioco di calcio mai esistito.
E poi di nuovo con le stragi, che forse avevano ragione quelli che addossavano ai videogame la colpa dell’aggressività nei giovani. I Lemmings, per esempio, insegnavano quanto poco contassero le vite, soprattutto di altre specie, ma quanto era bello fare esplodere quei cosetti dai capelli verdi. Come quando prendevi a colpi di bazooka i vermi dei tuoi amici; nel senso di Worms e della sua opzione multi-giocatore. E ancora morti con The Settlers, e Turrican, e Supergfrog, e Shadow of The Beast, e cristo che non c’era un gioco dove non si dovesse ammazzare qualcuno o qualcosa. Che infanzia pregna di immagini violente. Che infanzia meravigliosa.
Che se non era per l’Amiga e tutti soldi che mi ha fatto risparmiare, grazie alle trasposizioni dei videogiochi da bar, mica riuscivo a pagarmi l’università. Replicava alla perfezione i vari arcade quali Bubble Bobble, Double Dragon, Toki, Bomberman, e Final Fight che se sceglievi il sosia di Freddy Mercury sotto anabolizzanti erano botte per tutti.
E poi Kevin.
E poi Kevin, l’ultimo giorno di scuola, mi fece il regalo più bello che potessi mai desiderare. Era un floppy. Sull’etichetta, appiccicata sopra, c’era scritto solo ‘PG’. Mi disse di godermelo e che uno di quei giorni sarebbe venuto a provarlo. Un sorriso malizioso e poi null’altro.
Tornato a casa divorai il pranzo, poi corsi a chiudermi in camera. Accesi l’Amiga e – dopo che il Kickstart mi dette il segnale – infilai il dischetto e aspettai che i dati caricassero.
Baaam! Due tette.
Benedii Kevin.
Non riuscivo a capacitarmi di ciò che era apparso sullo schermo. Era Party Games, un videogame porno di cui avevo solo sentito parlare. Un oggetto di culto, tra realtà e leggenda, che solamente i ragazzi delle superiori millantavano di possedere. Ero così eccitato che quasi mi scesero le lacrime. La schermata del monitor era divisa in tre riquadri. In alto a sinistra una foto in rosso e nero di due donne procaci. Entrambe nude, ovviamente. La mora dai capelli lunghi stava su una sedia, con la bocca aperta in un’espressione di estremo godimento. Il motivo era che la bionda con frangetta, da dietro, le stringeva con vigore le enormi bocce. Sotto di loro c’era il menu in cui si poteva scegliere il numero di giocatori. Ancora mi sfugge il perché dell’opzione multi-player. Già vantavo una ragguardevole esperienza nel campo delle seghe così mi decisi per il livello avanzato, ma il grado di difficoltà non era selezionabile. Il gioco non richiedeva elaborate impostazioni.
Come funzionava era presto detto. Non era altro che una serie di video porno, uno per ogni livello, in cui i frame si susseguivano solo al muoversi del joystick. Più velocemente lo si muoveva, più il filmato era fluido e si facevano i punti. Ci misi poco a capire che l’unico scopo del gioco era quello di farsi le seghe. La cosa però non era così facile. La mano che teneva il joystick doveva muoversi a destra e a sinistra, l’altra – occupata con la levetta di carne – lo si può facilmente intuire. Ci voleva un sacco di coordinazione. Era un po’ come gli esercizi che si facevano a Educazione Fisica, in cui dovevi far roteare un braccio in avanti e l’altro all’indietro. Se ti distraevi un attimo, ti ritrovavi a muovere il cazzo tipo pendolo o a masturbare il joystick. Sembravo un ragazzino in piena crisi epilettica. Muovevo spasmodicamente le braccia in turbinio che finiva solo con la mia venuta, o perché si staccavano le ventose che tenevano incollato il joystick al tavolo. Era una sorta di personale rappresentazione di Ganesh, con quattro mani e tanto di proboscide.
La svolta fu il giorno in cui capii che collegando il mouse nella porta del joystick bastava un piccolo movimento della rotellina per simulare centinaia destra-sinistra. Avrei voluto raccontare a Kevin di quella mia rivoluzionaria scoperta, ma quando a settembre tornai tra i banchi lui non c’era: aveva già lasciato la scuola per il carcere minorile. I porno non erano l’unica cosa che spacciava.
Non ci fu mai alcun doppio con lui. Peccato. Per una volta che avrei potuto batterlo.
Di Kevin, negli anni, ebbi solo qualche notizia sporadica. Dicevano che faceva spola tra il carcere e la comunità di recupero. Morì per overdose che aveva vent’anni. La cosa finì sui giornali locali, ma fui l’unico della 2ªB ad andare al suo funerale. Arrivai che già l’avevano seppellito. Aspettai che i pochi presenti se ne andassero prima di dargli l’ultimo saluto. C’era una cosa che ancora volevo dirgli ma non c’ero mai riuscito.
«Kevin, se attacchi il mouse al posto del joystick i filmati vanno lisci come nelle cassette di tuo padre. Magari è secondario, ma fai pure un botto di punti.»
In copertina: il classico joystick dell’Amiga 500
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