Se mi chiedessero qual è uno dei lavori peggiori, sicuramente questo non è uno dei primi che mi verrebbe in mente. Eppure a vederli lì, nella loro sconsolata tristezza, gobbi, con le scoliosi croniche degeneranti e gli occhi bassi a guardarsi le scarpe, penso: ma che lavoro barbaro è il guardiano del museo? Tanto più se non si possono neanche sedere. Ci si potrebbe immaginare la poesia dello stare a contatto con le opere d’arte, magari anche il fascino di queste figure onniscienti a elargire erudite spiegazioni o imprevedibili segreti celati dietro le tele. E invece ci si ritrova davanti omini invecchiati e annoiati, donne passite armate di ricetrasmittenti, pagati solo per spegnere gli allarmi quando un sensore rileva che si è indicato troppo da vicino un dettaglio. “Signorina, la borsa va portata davanti e non sul fianco”. Ma forse è che la magia del passeggiare per un museo, di colpo, tra le stanze della Alte Nationalgalerie, mi si è trasformata in disgusto.
Alla mia compagna hanno regalato da poco un Gutschein für eine Jahreskarte Classic, la carta annuale per i musei statali di Berlino. 50 euro per tutte le esposizioni permanenti, per un anno. Considerato che l’ingresso a un museo costa una decina di euro, che quello per tutta la Museuminsel per un giorno costa 18, e che in un anno magari almeno un paio di volte ci capito, decido di farmela anche io. Che bello poter girare per la città e quando voglio, come voglio e per quanto voglio, poter entrare in una galleria di bellezze in esposizione. La scusa con cui siamo qui è una serie di quadri di Friedrich Loos che riproducono una panoramica a 360 gradi sulla Roma ottocentesca. Chiedo e mi dicono che è in una saletta del piano terra, ma noi, lasciata la giacca, decidiamo di salire fino all’ultimo piano e ridiscendere il museo in ordine inverso, contromano.
Iniziamo a vagare per le sale con passo ciondolante, sbirciando qua e là dentro ogni cornice, alla ricerca di chissà quale meraviglia. Nessun quadro, in questo contesto, riesce oggi a esaltarmi: neanche i Caspar David Friedich del romanticismo più struggente, con le immense vedute di nature desolate e figure umane tanto piccole quanto effettivamente siamo. Mi concentro piuttosto sui visitatori: tanti omini che come me, in questi grandi saloni, si aggirano alla rinfusa.
Arriviamo alla sala degli impressionisti, tutti lì uno accanto all’altro, tanto per poter dire che anche qui ne hanno almeno uno di ognuno. Riconosco Cezanne, Gauguin, Renoir, Monet, Manet e compagnia. Ognuno col suo tratto distintivo. Qualche inaspettato autore tedesco, un paio di piacevoli scoperte un po’ surreali, innumerevoli vedute di paesaggi italiani, ma comunque mi viene solo tanta, troppa, incontrollata tristezza.
M’immagino le vite di questi pittori in viaggio con le loro opere. Le loro solitudini in stanze d’albergo più o meno costose. Gli inviti e le eventuali leccate di mero interesse a qualche titolata votata all’arte e ai giovani artisti. Chi ha deciso nel corso della storia il successo di uno e dell’altro? Perché sui libri ritroviamo sempre e solo quella manciata di nomi? Per ogni storia che diventa celebre un’idea politica e sociale si staglia come vincente; specchio di chi allora stava governando il mondo e dettando legge. “Non esiste nessun documento di cultura che non sia allo stesso tempo un documento di barbarie”, dice Walter Benjamín. Così pochi uomini occidentali stanno lì inscatolati a esemplificare tutta l’evoluzione del nostro pensiero culturale: chi si è distinto dalla massa e ce l’ha fatta a lasciare un segno; marcare una svolta nel progresso inarrestabile dell’umanità.
“Generalmente si pensa che non vi sia niente di meglio dell’intelligenza umana, che gli uomini siano creature di speciale valore, e che le loro invenzioni e realizzazioni, rispecchiate nella cultura e nella storia, siano da ammirare” (M. Fukuoka) ..e se invece non fosse così?
Una statua di Rodin torna ad affascinarmi: piena di erotismo, raffigura l’uomo nei suoi pensieri, come un rapporto tra due amanti. L’umanità che si richiude ammaliata verso l’interno della propria testa, privandosi di occhi che possano vedere altrove. Anche il quadro centrale di Renoir (da cui l’immagine che fa da sfondo alla Jahreskarte che ho acquistato) parla in modo incommensurabilmente poetico di questa nostra condizione umana. Narcisismo. Qualcuno gli scatta una foto che presto posterà su un social network. Circondati da tanti input visivi non sappiamo più dove riposare gli occhi, guardiamo un panorama o una bellezza naturale e diciamo “sembra un quadro” o “sembra una foto” o “sembra uno sfondo del desktop”. I nostri nuovi riferimenti culturali ci hanno stravolto: abbiamo rivoltato il mondo e non sappiamo più da dove guardarlo.
Quadri creati per abbellire sale e chiese, dare vita a un muro, oggi sembrano appesi a morire in stanze create non per essere vissute, ma per essere sorbite in silenzio; prive di funzione, se non il ricordo. Come giganteschi monumenti ai caduti, ai martiri dispersi di un altro mondo, con i valori del quale non ci riconosciamo più. Dopo che negli ultimi decenni ci hanno ammorbato con opere create sterilmente, già pronte per la scatola museale, senza neanche passarci per la vita vera, sento il rigurgito di voler aborrire tutta l’Arte. L’arte da salotto, l’arte da museo, l’arte enciclopedica, l’arte per l’arte. Ricordi esemplari di battaglie, d’incoronazioni, di eventi, di mode, di volti, di miti, di egomaniaci e seghe mentali. Che valore hanno oggi più di un qualunque altro monito al tempo che passa e all’immanente che resta? Non è forse unica la verità che sottende a tutte le cose?
Finalmente arrivo al piano terra: il corridoio trasversale d’ingresso all’esposizione mi ricorda tanto i musei capitolini (primo museo da contemplazione come oggi lo intendiamo, 1734). Così tante statue di marmo bianco che se ne perde il gusto. L’unico pregio, forse, riportarmi per un attimo ai racconti del mito, delle ninfe, dei fauni, di uomini e donne passati e delle loro storie. Ma quante statue come queste ci sono per il mondo? Statue romane, copie delle greche, e statue neoclassiche copie delle romane. Al primo piano un intero apparato pittorico murario è stato strappato via da una villa italiana per poterlo portare qui, a Berlino, in questo museo. Quanti marmi, fregi e capitelli vogliamo accumulare?
Il museo diventa oggi un evento in gara sul mercato, che deve accaparrarsi clienti e vendere cartoline e stupidi gadget di design. Effettivamente come si può tornare in ufficio dal weekend low cost in una capitale europea, senza aver visto almeno un museo, quello con le opere simili a quelle di mille altri musei, e averci comprato almeno una gomma da cancellare a forma di coniglietto!? Potremmo usarli, questi musei. Chissà, anche viverli come liberi coworking spaces dove improvvisare botteghe artigiane (nell’800 proponevano un’industria tessile con tanto di alloggi per gli operai come riutilizzo del Colosseo).
Arrivo alla sala della tanto attesa panoramica su Roma. Sono pochi quadri divisi uno dall’altro (a differenza di come mi sarei aspettato), ma mi permettono comunque di mostrare alla mia compagna com’era Roma prima dell’unità d’Italia: un borgo arretrato, ma pieno di meravigliose bellezze diffuse, dove le fontane tra i fori erano usate come abbeveratoi per le mucche del mercato vaccino.
Ripresa la giacca esco dal museo: la fontana che adorna la piazza antistante, mi accorgo, è stata malamente tappata, chiusa con un enorme coperchio. Chissà un giorno, forse, la trapianteranno all’interno di qualche percorso espositivo a beneficio delle nuove nascenti megalopoli.
Appena posso, comunque, me ne rivado al museo. Ci vado a leggere un libro, magari, se mi lasciano in pace, sbragato per terra, in un angolo. Se qualcun altro vuole e può ci vediamo lì. Magari un giorno saremo tanti, a passarci il tempo o anche a lavorarci, con i nostri pc/mac/tablet/notebook, che tra una chiacchiera e l’altra ritroveremo lo spirito originario, forse mai raggiunto, del mouseion ellenico: luogo di culto ospitante una comunità di pensatori. E ci mettiamo tutti a cucire coniglietti di gomma.
Segui Michele Galasso su Yanez
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin