Il primo ricordo vivido che ho dell’Albania risale a quando avevo poco meno di quattro anni. Ero su una pista di decollo, di fronte alle scalette d’ingresso di un aereo con i motori già accesi.
Mi ricordo poche cose di quel momento, a malapena una per ogni facoltà sensoriale.
In bocca avevo un sapore chimico e dolciastro di aranciata, mia madre ne aveva comprata una per rassicurarmi fra le mille attese di quella giornata.
Dagli occhi vedo una sola immagine, un cielo nuvoloso e giallastro e la sagoma statuaria di mia madre con indosso un tallieur di cattiva qualità, i suoi capelli lunghi e corvini tirati rabbiosamente dal vento, che si dispongono quasi per orizzontale, da un lato della testa, come serpenti attirati da un profumo misterioso. Non riesco a capire se il vento fortissimo, che non sento ma vedo nella forza che solleva e sconvolge i capelli di mia madre, sia atmosferico o solo dovuto alla vicinanza delle eliche dell’aereo. Non lo saprò mai. Mia madre è di spalle e parla con due uomini in uniforme che scuotono la testa. Ma questo parlare lo immagino soltanto, nel ricordo l’audio è interamente dominato dal boato vibrante e mostruoso dell’aereo.
Quel rumore, quei capelli straziati dal vento, producono per la prima volta nella mia vita la sensazione che qualcosa di grave stia accadendo. Sono forse la mia primissima percezione dell’esistenza della società. È anche la prima volta in cui mi sono sentita preoccupata.
L’odore di questo ricordo è quello penetrante del gas di scarico. Ciò che sento con la pelle invece è un calore canicolare. Porto diversi strati di lana grezza sulla pelle e sopra un completo, giacca e pantaloni di materiale impermeabile. Assomiglio goffamente a un baby centauro, e nulla di ciò che mi definisce può essere ricondotto al mio essere femmina. A dire la verità sono quasi sicura che all’epoca non sapessi ancora di esserlo.
La scena nei miei ricordi dura pochissimo e tantissimo insieme. Tecnicamente è un flash, un’istantanea senza tempo, che dura lo spazio di un secondo. Eppure, a volte penso sia ancora in corso. Mi immagino ancora lì, a osservare con impotenza la schiena di mia madre, con il timore insopportabile che possa succederle qualcosa di brutto.
L’aereo stava per partire da Tirana e due soldati di frontiera avevano dichiarato invalido il nostro visto turistico. Lo era davvero: era un visto falso. A quel tempo gli sbarchi dall’Albania non erano ancora cominciati, ma era appena caduto il muro di Berlino.
Il governo del Partito del Lavoro d’Albania, Partia e Punes e Shqiperise, non era più forte come un tempo. Se il consenso popolare era già scomparso da più di un decennio, negli anni più recenti, dopo la morte del leader Enver Hoxha, iniziava a venire parzialmente meno, tra le persone, anche la paura.
Ormai tutti sapevano che il regime comunista in Albania era alle battute finali. Il governo guidato, dopo la morte di Hoxha, da Ramiz Alia, aveva iniziato ad ammorbidire la linea instransigente e anacronisticamente stalinista del partito, così anche sugli espatri c’era un briciolo di tolleranza in più. Si chiudeva un occhio di fronte al rapido aumento delle richieste di visti turistici, soprattutto quando arrivavano da parte di intellettuali e professionisti, nella speranza che, epurandoli, fosse possibile mantenere il controllo del paese.
Gi stessi alti funzionari pubblici non erano più leali al governo centrale e timbravano spesso concessioni e passaporti in cambio di qualche banconota. Il grande terrore era finito e i più avveduti preparavano i bagagli per trovarsi avvantaggiati nell’ora imminente del si salvi chi può.
Mio padre era partito due settimane prima per Bari, con una borsa da palestra e in tasca il numero di telefono di un parente alla lontana. Il suo partire anticipato era in teoria dovuto all’esigenza di tutelare me e mia madre dalle incognite di un espatrio illegale e alla cieca.
Nonostante in due settimane non avesse acquisito nemmeno la minima certezza sulla nostra futura vita all’estero, mio padre disse a mia madre, nella prima delle due telefonate che si fecero in quell’arco di tempo, di partire il prima possibile. Nella seconda conversazione mia madre gli aveva comunicato l’orario di arrivo dell’aereo all’aeroporto di Fiumicino, a Roma, dove papà era stato mandato a cercare lavoro tramite un vago passaparola delle pochissime conoscenze che aveva.
Dopo un tempo indefinito passato di fronte alla scaletta, durante il quale mia madre implora e paga i due doganieri, salimmo su quell’aereo.
Mio padre ci aspettava a Fiumicino con la cravatta, un mazzo di fiori e un sorriso terrorizzato.
Anni più tardi mi ha detto che quando ci vide arrivare da lontano, così incoscienti e fuori luogo, si rese conto che eravamo completamente persi e soli in un mondo nuovo e feroce e, per un attimo, desiderò sparire.
Non ricordo quando imparai l’italiano. Nella mia memoria l’ho sempre saputo, anche se mi rendo conto che non può essere cosi. Tuttavia la lingua non è mai stata per me un indicatore di diversità. Devo averla assorbita cosi velocemente, così traumaticamente, che ho rimosso qualsiasi tipo di esperienza legata all’apprendimento, compresi ostacoli e graduali miglioramenti.
Dopo qualche settiamana di tribolazioni tra questure e mense della Caritas, i miei genitori trovarono casa e lavoro a Ladispoli, un piccolo centro costiero, tra Roma e Civitavecchia, sul litorale tirreno, all’epoca una città dormitorio la cui popolazione era però già in espansione, grazie ai primi flussi migratori e alle ultime zampate della gentrificazione romana.
Intorno al 1990, tuttavia, praticamente nessuno sapeva dove si trovasse di preciso l’Albania, l’immigrazione non compariva ancora nell’agenda politica e mediatica e io e miei genitori ricevemmo quella che può definirsi in senso pieno un’accoglienza cristiana.
Casa, lavoro, vestiti, giocattoli di seconda mano.
Mio padre parlava già l’italiano piuttosto correttamente quando emigrammo. Non aveva fatto l’università perché proveniva da una famiglia dalla “cattiva biografia”, come venivano definite le persone che, prima dell’instaurarsi del regime, appartenevano all’esiguo ceto proprietario albanese. Tuttavia la generazione precedente, quella di mio nonno, era cresciuta nell’agio, prima di subire le espropriazioni parte del governo,e aveva ricevuto istruzione all’estero, alcuni come mio nonno proprio in Italia.
A lui era stato parlato l’italiano fin da piccolo e sapeva a memoria versi della traduzione italiana dell’Iliade, dell’Odissea, della Divina Commedia, di Petrarca, conosceva la letteratura e la storia dell’arte antica, in generale aveva un grado di cultura superiore alla media albanese dell’epoca, e forse anche di quella italiana.
Mia madre non parlava una parola di italiano, ma era alta, mora ed espressiva come un’attrice. In effetti era proprio un’attrice, di teatro, laureata all’Accadamia delle Belle Arti di Tirana, un istituto isolato dai cambiamenti che da quarant’anni investivano il mondo dell’arte in Occidente e che tuttavia conservava una dignità nella formazione di stampo sovietico, severa e antiquata, degli artisti.
Mi ricordo che per questi ed altri motivi io e i miei genitori fummo, nei primi mesi di permanenza in un posto come Ladispoli, trattati quasi come un fenomeno da baraccone. Giovani, poverissimi, educati e colti, eppure inconsci delle migliaia di piccoli usi e costumi diffusi nelle società occidentali, ignari, in particolare, dell’importanza delle merci e delle ritualità legate ai consumi.
Una coppia di anziani che frequentavano la chiesa ci invitò a cena. Fu la prima volta che vidi una casa borghese e rimasi piuttosto affascinata da quello che mi sembrava un ambiente lussuoso.
I miei genitori erano esotici e rassicuranti quanto basta per attirare la simpatia di molti italiani con cui venimmo a contatto. I più anziani, a volte, ci raccontavano ricordi legati al fascismo e alla permanenza dell’esercito italiano in Albania. Altri, totalmente all’oscuro, ci chiedevano informazioni sul nostro paese di provenienza. Io ero felice, credo. Nella prima casa in cui abitavamo c’era una stanza tutta per me e una piccola luce verde sul comodino. Mi ricordo che chiedevo a mia madre di sedersi sul mio letto finché non mi fossi addormentata e che avevamo stabilito un segno con le dita che indicava “quasi dormendo puoi andare”. Al segnale lei spegneva la luce e andava. Ero serena.
I miei invece erano molto stanchi e mio padre aveva perso dieci chili in pochi mesi a causa dello stress. Quando chiamammo per la prima volta mia nonna fu una grande emozione, non avevano più avuto nostre notizie da quando eravamo partiti, perché parlare con i fuggitivi, con i traditori che violando la data di scadenza del visto turistico avevano abbandonato il paese, era pericoloso. Ma sarebbe durata poco: di lì a qualche settimana il governo sarebbe caduto e tra saccheggi, scontri di piazza e busti di dittatori abbattuti, l’Albania si sarebbe dichiarata finalmente una democrazia.
Io nel frattempo dicevo teneramente a mia nonna, in lacrime dall’altro capo del telefono, che stavo bene e avevo mangiato la banana: non c’erano banane in Albania. Non esisteva l’import e nemmeno l’export con i paesi fuori dal blocco sovietico. Da una ventina d’anni, in realtà, erano stati interrotti gli scambi commerciali anche con gli altri paesi socialisti e l’Albania, paese piccolo e ancora in maggioranza agricolo, viveva in una sconsiderata e masochistica autarchia.
Nulla usciva e nulla entrava e il principio valeva per le merci, per la musica, per i libri, per gli esseri umani e per la frutta.
In verità qualcosa, clandestinamente, arrivava, soprattutto dalla vicina Italia. In qualche casa si rischiava, manomettendo l’antenna e riuscendo a intercettare qualche frequenza radio o televisiva d’oltremare. Bisognava stare molto attentti a non farsi sentire da nessuno che potesse fare la spia alle forze dell’ordine, dato che il reato di diffusione di propaganda nemica capitalista prevedeva diversi anni di detenzione. Ma già la generazione dei miei genitori era dominata dalla paura, tutti sognavano di avere un paio di jeans di fattura estera, conoscevano le canzoni di Sanremo e nutrivano il loro immaginario di liberazione giovanile con i racconti dei pochissimi che, grazie a competizioni sportive o delegazioni diplomatiche, erano usciti fuori dall’Albania.
Molto si muoveva intorno alle immagini, alle parole rubate da un universo parallelo che potremmo chiamare “pianeta Rai 1”.
Di lì a pochi mesi anche l’Albania, come tutti i paesi del blocco socialista, dichiarò chiuso il capitolo della guerra fredda, proclamando la democrazia e indicendo libere elezioni. Ovviamente in un paese governato con il terrore per quasi cinquant’anni e ridotto alla fame, la prima conseguenza del nuovo corso della storia fu quella di un gigantesco vuoto di potere e di una diffusa anarchia. L’Albania dopo la transizione è come una pentola a pressione che ha resistito oltre qualsiasi pronostico e che adesso esplode in mille frammenti di acciaio e acqua bollente. Non c’era nulla e nessuno che potesse controllare la tenuta sociale di una transizione cosi radicale e traumatica. Cinquant’anni di dittatura durissima avevano annullato tutti i corpi sociali intermedi: non c’erano istituti religiosi, non c’erano associazioni, non c’erano partiti, c’era solo lo Stato, e lo Stato era il partito, e il partito era il leader, cioè Enver Hoxha. Quando questa logora impalcatura statale crollò, si aprì una lunga fase in cui l’unica regola, l’unico principio e l’unica risorsa era il libero mercato, inteso come la libertà assoluta di schiacciare il più debole.
La cirminalità organizzata, che fino al 1991 in Albania semplicemente non esisteva, cosi come la droga e la prostituzione, travolse come un uragano le campagne e le città albanesi allo sbando. Adesso era possibile fare soldi, e comprare cose, e questa divenne per anni la morale egemone tra i nuovi albanesi, che si scoprirono affamati, arretrati e privi di scrupoli, dopo cinquant’anni di imposto rigore e sacrificio per la causa del comunismo.
Con l’abbattimento del vecchio regime e con il nuovo che ancora non si era insediato, non c’era nessun corpo statale che fosse in grado di controllare le frontiere del paese. Cosi quello che avvenne nei mesi successivi alla caduta del regime non fu esattamente un flusso migratorio, quanto un vero e proprio esodo.
Nell’agosto del 1991 arrivò al porto di Bari, come una nave fantasma, la Vlora, storica imbarcazione cargo degli anni sessanta, che era stata presa d’assalto da decine di migliaia di persone al porto di Durazzo e costretta a salpare per l’Italia. Se guardo le immagini della Vlora oggi le trovo di un’umanità struggente, tremendamente poetiche.
Questa nave brulicante di corpi che appare all’orizzonte, viva e spettrale, e la disperazione, mista ad euforia, di ognuno di quei corpi in cerca di un mondo sconosciuto, di un mondo sognato, di un altrove. Ma se oggi le venature quasi bibliche e apocalittiche delle immagini dell’esodo albanese mi affascinano, all’epoca, quando avevo sei anni, ricordo che mi scioccarono, così come l’opinione pubblica italiana, che da un giorno all’altro cominciò a parlare quotidianamente di Albania e di albanesi.
Tutto ciò mutò, e non poco, la mia percezione dell’essere albanese. Mentre i miei ricordi e la mia esperienza di vita venivano man mano formandosi in Italia, rendendomi sempre meno connessa alla memoria dei miei primi quattro anni di esistenza, allo stesso tempo il mio essere albanese acquistava una certa importanza negativa, in quanto legato a quella che veniva definita dai telegiornali un’emergenza. Allora ero solo una bambina, non avevo consapevolezza storica e politica di ciò che accadeva. Mi ritrovavo improvvisamente associata a questa massa di persone, definite dai media, di volta in volta, disperate, pericolose, bestiali. E cosi li vedevo anche io questi albanesi, miei connazionali, che improvvisamente sembravano aver invaso il paese con la loro minacciosa povertà.
Non avevo tanti strumenti per comprendere. I miei lavoravano molto, io andavo a scuola al tempo pieno, ero abbastanza socievole e prendevo bei voti, ero spesso in strada a giocare con i bambini del quartiere. Le maestre e gli alunni mi volevano bene, tuttavia mi sentivo di frequente spaesata. Nei primi anni Novanta credo di aver avuto una pesante crisi di identità, mai del tutto elaborata, in cui cancellavo progressivamente ciò che mi accomunava all’Albania, assumendone sempre di più la raffigurazione mediatica. Poco dopo l’emergenza sbarchi si diede infatti l’emergenza criminalità albanese, mentre io costruivo inconsciamente e progressivamente sempre più elementi di appartenenza all’Italia. L’Italia che era il paese dei miei amici, dei loro genitori onesti e vestiti bene, della cultura e del benessere.
L’Albania divenne per me qualcosa di alieno, una contingenza che legava me e i miei genitori a una storia che di fatto non ci riguardava.
In quegli anni appresi l’arte della mimesi. Fu forse la capacità più utile e più dannosa insieme che abbia mai acquisito in tutta la mia vita. Mimesi voleva dire per me desiderio di assomigliare acriticamente alla piccola realtà provinciale e conformista che mi circondava in quel di Ladispoli.
Nella terra di mezzo della mia infanzia volevo solo essere come tutti gli altri.
All’età di otto anni, ad esempio, ero diventata una fervente cattolica. I miei genitori provenivano uno da una famiglia di origine islamica, l’altra, avendo avuto un padre ultracomunista (mio nonno materno, l’uomo più onesto d’Europa) era fondamentalmente atea.
Dopo essersi consultati, avevano deciso e mi avevano comunicato che non avrebbero influenzato il mio destino spirituale e che avrei dovuto aspettare di avere diciotto anni per scegliere consapevolmente la mia confessione religiosa.
Io piansi per giorni. Ero completamente infervorata di passione religiosa, desideravo fare il catechismo e la comunione come gli altri miei compagni di scuola, desideravo recuperare il battesimo che non avevo mai ricevuto e che mi venisse assegnato un nome cristiano, insomma ero convinta che non ci fosse nessun bisogno di aspettare la maggiore età perché io, già a otto anni, desideravo inconsolabilmente Gesù.
L’omologazione per qualche anno fu la mia dottrina. Imparai ad osservare gli altri e ad adeguarmi al loro registro, al loro modo di pensare, al loro modo di essere, in tempi record e senza nemmeno sforzarmi. Imparai a capire cosa pensavano e non dicevano, e cosa avrebbero voluto sentirsi dire. Imparai a nascondere me stessa.
Nell’agosto del 1996 tornai per la prima volta in Albania. Avevo undici anni e durante il viaggio feci fatica a domare l’eccitazione. Il porto di Durazzo mi accolse tra fango, smog e bambini scalzi e mocciolosi che inseguivano il vecchio fuoristrada di mio zio, che ci era venuto a prendere.
Restai, spostandomi tra Durazzo e Tirana, per un mese intero.
Fu un mese bellissimo.
L’Albania era ancora più estrema di quello che mi aspettavo, una nazione totalmente fuori controllo, euforica e spietata, più povera che mai, che si avviava a grandi passi verso la crisi armata del 1997. Passai quasi tutto il tempo con una mia cugina di sedici anni e con i suoi amici. Il resto tra parenti improbabili, tuffi nel mare e abbondanti pranzi meridionali. Mi divertii. Le strade erano piene di gente a tutte le ore, perché la disoccupazione era quasi totale.
Edifici distrutti, nuove e pacchiane insegne al neon, tutti che fumavano e tantissima polvere, polvere ovunque, Audi e Mercedes con la musica a palla, vecchie rugose col fazzoletto in testa, ragazze stupende in minigonna, asini sul ciglio della strada.
Io ero partita come un’ordinaria undicenne del primo mondo, con la pancetta da merendine e il cerchietto in testa. In quel mese mi trasformai in una donna. Per strada ragazzini poco più grandi di me, che in Albania si atteggiavano a uomini vissuti perché magari avevano già guidato la macchina e lasciato la scuola, mi fissavano con bramosia quando passavo per la strada. Gli amici di mia cugina mi avevano di nascosto offerto una sigaretta, che avevo fatto solo finta di aspirare.
Le persone che avevo conosciuto erano molto interessanti e parlavano di storia e di politica e di musica. Scoprivo un umorismo strano, quell’ironia albanese che, allora non lo sapevo, custodivo anch’io, dentro di me. Tutto era totalmente diverso, incompatibile con l’immagine di bambina occidentale che mi ero costruita, eppure tutto era assolutamente familiare, e fuori di testa.
Fu un’estate indimenticabile, che mi fece comprendere che dentro il mio essere straniera, albanese, in un certo senso diversa e minoritaria, si nascondeva un mondo rovesciato ed esaltante che i miei compagni di classe non avrebbero mai potuto capire. Infatti, al ritorno in Italia, non ne parlai quasi per niente, e non perché non volessi, ma perché non trovavo le parole per descrivere.
Da quel momento l’Albania divenne non più un luogo estraneo, ma il mio privato altrove. Continuavo a soffrire il giudizio della società su un paese considerato povero ed arretrato, mentre io sapevo, finalmente, che in Albania ci si divertiva, si sognava e si masticava e risputava il mondo dai bordi dei marciapiedi.
Fu solo qualche anno dopo, tuttavia, che rivalutai del tutto l’Albania e le mie origini.
Intorno ai sedici anni iniziai a odiare la cittadina in cui ero cresciuta, l’ignoranza piccolo borghese, il bigottismo della gente. Più crescevo e più la straniera che ero cresceva dentro di me, distruggendo tutte le costruzioni mentali dell’infanzia, portandomi ad amare romanticamente i tossici, i barboni, i vagabondi, gli zingari, le prostitute. L’adolescenza stravolse il mio universo etico e in un certo senso da quell’adolescenza non sono uscita mai.
A Ladispoli iniziai a frequentare gli alternativi del paese. Eravamo sempre in giro e ci piaceva scandalizzare i passanti con un misto di casino e strafottenza. Alcuni di noi erano figli di immigrati, soprattutto dell’Est Europa: polacchi, bulgari, ucraini. Cominciai a guardare con solidarietà gli albanesi in Italia, anche se non li frequentavo. Provavo rabbia per quella che mi sembrava una strumentalizzazione mediatica che legava l’immigrazione al crimine. A dire il vero provavo rabbia un po’ per tutto, ma in particolare per me stessa.
Ogni anno e mezzo o due capitava che tornassi con i miei in Albania e la trovavo ogni volta diversa, in rapidissima trasformazione. Purtroppo però, dopo quel glorioso agosto del 1996, non avevo più trovato cugini della mia età con cui i miei mi lasciassero uscire. Quindi l’impatto era meno forte, osservavo il paese come da un acquario, protetta dalle ringhiere della mia famiglia allargata. Passavo quasi tutto il tempo con i miei genitori e mi perdevo, guardando fuori dalla finestra un mondo vario che non mi annoiava mai.
Non ho mai avuto amici in Albania. Tuttora non ne ho, anche se mi piacerebbe.
Negli anni dell’università la mia percezione dell’essere albanese si ribaltò del tutto rispetto all’infanzia. Desideravo essere albanese, anche se lo ero sempre meno. Non conoscevo cosa dicevano, facevano, bevevano i ragazzi albanesi della mia età. Non sapevo che musica ascoltavano, non sapevo nulla della vita là, se non quello che assorbivo famelicamente con gli occhi e riempivo con la fantasia nelle parentesi, sempre più brevi e monotone, in cui tornavo a trovare i nonni rimasti vivi.
Negli anni la mia curiosità verso l’Albania è aumentata gradualmente, pur rimanendo ai lati della mia esistenza, mentre altrettanto gradualmente sono sparite dai notiziari e dai discorsi al bar gli albanesi in Italia. “Albanese” oggi non è nemmeno più un insulto.
Non posso dire che essere albanese costituisca davvero la mia identità, se non in minima parte, piuttosto l’Albania ha costruito le condizioni della mia difficoltà ad averne una, mi ha mostrato quell’altrove che non mi ha mai abbandonata.
Come essere stranieri a se stessi, come un certo modo di guardare il mare.
Segui Shendi su Twitter
Tutte le foto all’interno di questo articolo sono state realizzate dall’autrice, dunque i diritti allo sfruttamento di queste sono a lei riservati. Temete questo simbolo ©.
L’immagine di copertina è Common Free.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin