I bambini mi danno sui nervi. Possiedono tutte le caratteristiche di un essere umano che mi infastidiscono: sono rumorosi, irragionevoli, richiedono continue attenzioni e cure, sono egocentrici e, spesso, puzzano.
Più o meno per gli stessi motivi, non ho un compagno.
Sarà per questo che, quando ho scoperto di essere incinta, non ho fatto i salti di gioia.
Il momento in cui lo realizzi è violento, è brutale. Poi avrai tempo per razionalizzare, per prendere decisioni e fare piani, per essere felice o per disperarti. Ma c’è un istante, l’esatto istante in cui comprendi che tu, in quel momento, fai parte di quel processo universale e mistico, onnicomprensivo, del dare la vita, che ti toglie il fiato e la ragione. Ti zittisce. Non importa quanto tu già te lo aspetti, quanto tu creda di essere pronta, non importa che tu lo voglia un figlio, oppure no. Vedere quelle due linee rosa che ondeggiano di fronte a te, ondeggiano perché a quel punto la tua testa sta girando, cambia tutto quello che sai, o che credi di aver saputo fino ad allora.
Quello che credevo di sapere io, prima di quel 20 novembre di sera, prima di tenere in mano un test di gravidanza positivo, era che sarebbe stato facile per me, psicologicamente e pragmaticamente, avere un aborto, nel caso mi fossi trovata in questa situazione. Pensavo lo sarebbe stato perché io figli non ne voglio. Non è nemmeno una decisione la mia, è un’insita inadeguatezza alla maternità, condita da altri fattori, quali il disprezzo per il modello etico, sociale e politico della società in cui vivo, e la sostanziale convinzione schopenhaueriana che l’umanità sia un tragico errore cosmico che merita l’estinzione.
Quello che invece non sapevo, è che il processo che avrebbe portato all’interruzione della gravidanza sarebbe durato ben 18 giorni, non quattro o cinque come pensavo, e che quei 18 giorni sarebbero stati infiniti. Non sapevo che ci sarebbero stati dei momenti in cui avrei rischiato di crollare, soprattutto a causa di pressioni esterne, sociali e istituzionali. Non sapevo che, per tutto quel tempo, mi sarei sentita terribilmente sola e abbandonata. Inoltre, non sapevo quanto il mio corpo stesse cambiando. Mi raggirava, offrendomi cocktail di estrogeni mi anestetizzava, e mi guidava verso quello che secondo lui era il naturale proseguimento delle cose: la danza di perpetuazione della specie.
Ma tornerò su questi punti quando sarà tempo.
Oggi, infatti, è solo il giorno numero uno, io mi trovo nella mia WG in Friedrichshain, a Berlino. È la mattina del 21 novembre 2015, mi sono appena svegliata e voglio concludere questa storia il prima possibile.
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Berlino, sabato 21 novembre 2015
La pioggia che batte sui vetri mi fa aprire gli occhi prima della sveglia, sono le sette e venti. Di sabato i ginecologi sono chiusi, ma c’è un numero da chiamare per le emergenze, lo 030 31 00 31. Un operatore, in tedesco stretto, mi dà il contatto di una clinica aperta in Bergmannstrasse. Avviso gli amici più stretti ma ci vado da sola, quando sono da sola sono più forte, quando sono con altri mi ammorbidisco, frano un po’su di loro, mi appoggio e, se poi si spostano, mi faccio male.
Mi fiondo là. Non telefono. La clinica è chiusa.
Faccio il giro all’edificio, mi attacco al campanello, batto i pugni sulla porta e i piedi sull’asfalto, ma niente. Rimane chiusa.
L’ora seguente sarà di collera e sconforto. La passerò su degli scalini metallici, semi-riparata dall’acqua, a chiamare l’operatore e poi una clinica, l’operatore e poi una clinica, l’operatore e poi una clinica ancora. Tutte chiuse. Tutte prenotate. Dopo la quindicesima telefonata, l’operatore mi dirà di andare direttamente in un ospedale, perché non saprà più dove indirizzarmi. Camminerò per più di mezz’ora, con le sferzate di vento in faccia e le frustate di rabbia nello stomaco. All’ospedale, parlerò con voce tremante in una lingua straniera e stentata ad un’infermiera, che si scuserà, perché non potrà fare nulla per me. A questo punto, saranno passate più di tre ore. Io sentirò il respiro farsi sempre più corto mentre me ne andrò sotto la pioggia, contemporaneamente qualcosa mi formicolerà nella testa e la vista inizierà ad offuscarsi, mentre le gambe si faranno sempre più molli. Ferma sul bordo di una strada deserta, tenterò di controllare la crisi di panico e, proprio in quel momento, il cellulare che starò tenendo in mano come ancora alla realtà, inizierà a suonare.
In una clinica si è liberato un posto.
Mi siedo sul marciapiede, sorrido, mi metto una sigaretta in bocca, ma la mano con l’accendino non arriva a destinazione. A metà tragitto fra me e coerenza, sbagliato inizia a scoppiare fuochi d’artificio. Non articolo il pensiero, maledico tutti i forum che ho letto la mattina e mi infilo nella prima U-Bahn che incrocio per la strada.
Lo studio ginecologico si trova esattamente sotto alla stazione di Warschauerstrasse. Per arrivarci scanso le avances di tre barboni e passo davanti a due bar casinò che hanno all’esterno una clientela già alticcia, immersa nel fumo delle sue sigarette. La porta dell’edificio è anonima, le pareti sono scrostate e le luci del giro scale tremolano. Seduta su un gradino, una ragazza piange. La scena è talmente cliché e io ormai sono talmente stremata che devo soffocare una risata.
Come c’è da aspettarsi, la sala di attesa è gremita di donne incinte con compagno. Alle pareti, neonati in fotografia mi sparano sorrisi sdentati accusatori. Io mi sento a mio agio come un bracconiere ad una raccolta fondi del WWF. Passano due ore e una ventina di pancioni ondeggianti prima che arrivi il mio turno. Il medico è un uomo giovane con l’aria florida, la cui faccia però si ritira come se avesse succhiato dieci limoni malmaturi quando gli dico che sono Ungewollt Schwanger (che sono incinta, ma non è voluto). Tenta di mantenere un certo garbo, ma è con reticenza che mi spiega le opzioni a mia disposizione. Da dietro la scrivania, attaccati fieramente al muro con lo scotch, disegni di persone sorridenti, con braccia e gambe che partono da teste rotonde e spelacchiate, mi suggeriscono il perché.
Vengo sottoposta all’esame di routine e risulta che sono incinta di sette settimane.
Sette settimane fa era ancora quasi estate, dalla finestra entrava il sole che mi scaldava la faccia sul cuscino, l’ultima volta che ti avevo visto c’era sporco per terra ed in bocca avevo un’amarezza conosciuta ma, la tua voce, quando avevi chiesto scusa, era un’adulazione risentita. Anche se sapevo che l’avevi esercitata mille volte prima, a me non mi importava.
Ti avevo aspettato a letto, con addosso un maglione giallo, e sotto niente.
Mentre facevi le scale io ero fra le coperte, guardavo la polvere che fluttuava, una spruzzata di zafferano in controluce, che per un attimo si era confusa con i tuoi capelli quando eri entrato. Seminando i vestiti ti eri seduto di fronte a me, la tua faccia a due dita dalla mia, i tuoi occhi che mi si rovesciavano addosso, il tuo fiato che sapeva di insonnia e sconosciuti, il tuo modo di parlare che era tutta una finzione. Ma non mi importava.
Dopo qualche secondo il mio maglione giallo era ai piedi del letto. Al suo posto, solo le tue mani.
Sette settimane sono quasi il limite – mi dice il medico – ma posso ancora indurre l’aborto con la pillola, la RU486, che non implica l’ospedalizzazione. Posso anche decidere per l’operazione chirurgica, che sarebbe obbligatoria dopo 63 giorni dal concepimento, e che è più invasiva ma anche più sicura. I costi sono 200 euro per la pillola, 400 per l’operazione, ma se l’aborto fosse dettato da ragioni mediche, se la gravidanza fosse il risultato di una violenza, o se il reddito fosse al di sotto di una certa soglia, allora se ne occuperebbe lo Stato.
Su consiglio del medico, io decido per la pillola.
Il prossimo passo, allora, è prenotare un appuntamento in un counseling, dopodiché la legge prevede che prima di procedere con l’interruzione di gravidanza io debba aspettare tre giorni, necessari per riflettere sulla cosa.
Necessari per riflettere sulla cosa.
Ci saranno tanti punti pasticciati in questo processo che mi faranno dubitare della competenza come essere umano di chi lo ha ideato. Ma questo è quello che mi farà incazzare di più. Qualcuno ha deciso al mio posto che io non ho sufficiente raziocinio per gestire autonomamente la mia decisione di interrompere la mia gravidanza. Che ho bisogno di qualcuno che mi obblighi a rifletterci sopra, perché si sa, le donne sono creature avventate. Perché non è abbastanza trovarsi in una situazione difficile come questa, magari da sole, magari in una città straniera. Non è sufficiente il peso della decisione, non sono sufficienti la minaccia del dolore fisico e psicologico e gli sguardi di compatimento o di condanna. No, bisogna aggiungere una nota paternalistica, una presenza patriarcale fantasma che impone arbitrariamente un preciso lasso di tempo necessario per ragionare, per far funzionare il cervello. Ma questa, per quanto mi riguarda, non è la cosa peggiore. La cosa peggiore è la connotazione moraleggiante della regola. Io ho bisogno di tempo per prendere la decisione giusta. Ho bisogno di tempo perché la pressione sociale che vuole che la donna abbia dei figli penetri subdolamente nel mio subconscio. Ho bisogno di tempo per sentirmi in colpa, se quei figli non li voglio.
Ecco, questo sentimento della colpa sarà qualcosa che vilmente mi serpeggerà addosso tutto il tempo. Sinceramente, io non ho mai provato rimorso per la mia decisione di abortire. Per quanto comunque non sia stato facile, non ho mai avuto un minimo cedimento al riguardo. Ma l’argomento è talmente strumentalizzato, il procedimento è talmente incasinato, e sopra sono state costruite così tante sovrastrutture sentimentalistiche e morali, che io ad un certo punto mi sono chiesta se per caso avessi qualcosa di sbagliato. Sono stata assalita alla sprovvista dal sentimento della colpa, per non sentirmi in colpa. Un colpo di coda geniale, il catch 22 perfetto.
Interrompere una gravidanza, credo, è un atto che segna, sempre. Più o meno materialmente, metaforicamente, spiritualmente o religiosamente, è con la morte che si ha a che fare e, venire a patti con la morte, è sempre stigmatizzante. Ma ognuno ha la propria visione del mondo, la propria sensibilità e la propria strategia – privata ed intoccabile – per elaborare il dolore, o il non-dolore, che la morte provoca.
Il dottore dai limoni in bocca si accorge della smorfia di disgusto che ha preso la mia faccia mentre penso a tutto questo. Così dobbiamo sembrare due vecchi miopi e senza dentiera che si guardano. Lui comunque sembra capire l’antifona e butta là un Leider ist so, purtroppo è così, e continua a spiegarmi cosa succederà più avanti. Dopo quei tre giorni, dovrò tornare in clinica per prendere le prime tre pillole (tre perché mi trovo già ad uno stadio avanzato), che interromperanno la nutrizione all’embrione. Dovrò aspettare altri due giorni per prendere l’ultima pillola, quella che provocherà le contrazioni e l’espulsione. Dopo una settimana dovrò tornare per una visita di accertamento. C’è infatti una minima possibilità che il procedimento non funzioni e debba comunque sottopormi all’operazione.
Lascio la clinica completamente senza energie e con troppe informazioni ed emozioni da elaborare. A casa non faccio nulla, mi lascio il tempo per non pensare a niente e riposare.
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Berlino, lunedì 30 novembre 2015
Non sono più io. Vivo lentamente, con un animo arrendevole e pacato. Vago come in balia di un anestetico. Non mi siedo, mi accomodo. Non parlo, sussurro. Non cammino, galleggio. Non rido, sorrido. Il mio io si diluisce, sta facendo spazio a qualcun altro che un giorno sarà più importante di me, al quale io mi dovrò dedicare. Io che non mi sono mai sentita parte di nessuna cosa, ora mi sento parte di tutto, dell’energia materna dell’universo, della spinta procreatrice che governa le cose e le fa sopravvivere in modo teleologico, necessario. Mi lascio cullare per un po’in questo sentimento commovente, che mi infonde calma, e comprendo perché ci siano donne che, nonostante tutte le circostanze siano avverse, decidono di proseguire la gravidanza. È come lasciarsi andare al sonno, mettere piede in una stanza calda quando si è stanchi e abbandonarsi ad un tepore che ristora.
Ma il mio io non è ancora del tutto sfumato. Ha una consistenza marmorea, lui, la stessa che mi ha sempre dato problemi con la gente e con gli affetti, e che invece questa volta mi viene ad aiutare. Inizio a detestare tutta questa mollezza, il tepore e la lentezza, detesto vedere che le mie passioni sono più pallide e i miei desideri meno marcati, e giuro che non capiterò mai più in questi panni che mi vanno larghi, nei quali mi perdo e non riesco più a trovarmi, a capire chi sono.
Me lo dico di fronte allo specchio, e mi concedo di piangere una sola volta, dopo aver ingoiato le prime tre pillole, quelle che smettono di mandare nutrimento all’embrione, perché non posso non essere toccata dalla consapevolezza di avere qualcosa dentro che si spegne. Lo faccio disperatamente, quella volta e poi basta, poi proseguo come un carro armato, senza avere più niente dentro di me o vedere qualcosa di fuori di me, io vado avanti, il mio lutto è una macchina da guerra solitaria e rabbiosa, che disintegra e distrugge, mi porta in salvo intonsa e mi lascia a percorrere l’ultimo pezzo come un ammasso di pietra freddo ed immobile, pieno soltanto di se stesso.
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Berlino, 2 dicembre 2015
L’ultima pillola è quella che provoca le contrazioni e l’espulsione dell’embrione. La si deve inserire direttamente nella vagina. Il medico mi chiede se lo voglio fare da sola a casa, io lo guardo come se mi avesse proposto di guidare la prossima operazione a cuore aperto in qualità di luminare, e gli dico che ho ancora qualche difficoltà con gli assorbenti interni. Lui ride, ma la mia non è una battuta.
A seduta finita, mi dice di non preoccuparmi se sentirò un po’male, che un dolore simile a quello che si prova durante il ciclo è normale.
Da lì a due ore un po’male sarà l’inferno. Il dolore sarà talmente forte da farmi vomitare più volte, non riuscirò ad articolare nessun suono, sarò prigioniera di spasmi lancinanti intermittenti, le piccole pause fra l’uno e l’altro saranno solo una minaccia psicologica in attesa del nuovo attacco, sarò sotto tortura, terrorizzata. Sarà come essere aggrappati a un mestolo che mescola una gigantesca minestra bollente, e io continuerò a fare su e giù dall’inferno, su e giù dall’inferno ustionandomi tutte le volte tutto il corpo, senza pausa, per due ore che sembreranno due millenni, e alla fine la mia ricompensa saranno solo sangue e cicatrici, niente da tenere in mano, niente da accogliere, niente per cui essere grati, sarà solo un immenso fiume di sangue che scaricherò nel water del mio appartamento, senza guardare per la paura di quello che potrò vedere, provando una tristezza anch’essa dolorosa, e un nauseante senso di ingiustizia.
Ma dopo aver sentito quel click nel bassoventre rimbombarmi nella nuca, come di qualcosa che si stacca, sarò libera e sollevata, mi alzerò nell’aria solo grazie ai respiri enormi che riuscirò a fare, avrò le pupille giganti riempite di eudaimonia e vivrò una pace religiosa, avrò espiato e, come per tutti quelli che hanno espiato, non avrò senso di colpa, perché l’avrò lasciato giù all’inferno.
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Berlino, 9 dicembre 2015
La visita del 9 dicembre, dopo 18 giorni infiniti, sigilla storia. È un controllo di sicurezza per accertarsi che non sia necessario anche il raschio. Quando mi dicono che va tutto bene, è l’ultima volta che trattengo il respiro.
Di questi 18 giorni, quello che ricorderò con più forza sarà la solitudine. Nonostante la presenza di qualche amico che mi ha tenuto la mano, e che ha fatto la differenza, mi sono sentita sola in un modo fisico e impenetrabile. Mi sono sentita abbandonata dalla figura sentimentale che avrebbe dovuto stare vicino a me e non lo ha fatto in modo meschino, e dalle figure ufficiali che hanno imprigionato il processo nell’anonimato, riducendolo ad una squallida pratica solitaria, nascosta, da consumarsi con riserbo dietro i morigerati muri di una casa privata. Lo scoprirò solo dopo che alcune delle donne intorno a me, in verità, c’erano già passate e avevano la propria storia, fatta di sfumature diverse, ma della stessa sostanza. Lo scoprirò soprattutto perché non avrò remore a parlarne, solo un senso di pudico rispetto.
Ma ogni volta che solleverò l’argomento, lo farò con un tatto che non mi si addice e che non mi piace, perché priva le cose della loro crudezza naturale. Continuerò ad avere l’impressione di aprire una scatola che ha dentro dei segreti che vanno solo sussurrati all’orecchio, con circospezione, e la dovrò aprire solo un poco per volta, perché chi mi sta attorno potrebbe essere turbato dalle cose sconcertanti che ci sono là dentro. Potrei imbarazzare loro e, addirittura, mettere in imbarazzo me stessa. Una pratica molto sconveniente, mi hanno fatto notare.
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