THE HAUS è stata concepita per essere distrutta. 165 artisti da Berlino e da tutto il mondo hanno creato 108 stanze d’arte, destinate alla distruzione. Ogni cosa sparirà, e di THE HAUS rimarranno solo i ricordi. E il catalogo.
All’interno di The Haus non si possono scattare fotografie.
Quinto piano.
Scosto le tende per entrare in una stanza piccola, forse la più piccola di tutto l’edificio. Descritta da un foglio A4 appeso all’ingresso come la riproduzione fedele di una camera di un brothel (un bordello), di una giovane indiana costretta a prostituirsi.
Al centro della stanza c’è una sedia in legno che sembra cadere a pezzi. Mi siedo, e inizio ad osservare la camera. Le pareti sono dipinte in modo grezzo: ogni singola pennellata è visibile sulla loro superficie. Alla mia sinistra c’è un letto ricavato da un bancale alto qualche centimetro con sopra una coperta di un materiale simile a quello delle coperte termiche, a mo’ di materasso. Sopra il letto, dei panni stesi su un filo stanno lì ad asciugare. Alcune pagine di riviste e giornali indiani sono attaccate alle pareti, come fossero poster. In alcune di esse ci sono foto di modelle indiane, probabilmente idoli della ragazzina. All’angolo, una minuscola valigia di pelle gialla, e alcuni vestiti sparsi per terra, vicino ad una cassetta in legno contenente magazine indiani. Pochi mobili, a parte una cassettiera e uno specchio alle mie spalle. Giusto lo stretto indispensabile. Cerco di immaginare come possa una persona vivere in uno spazio così piccolo e angusto, sotto la schiavitù della prostituzione. E mentre provo a immaginarlo inizio a sentire un vuoto all’altezza della bocca dello stomaco. Per un attimo credo di vedere le pareti e il soffitto accartocciarsi verso di me. Il vuoto si sposta dallo stomaco alla gola, e quasi non respiro. Devo uscire, penso. Mi alzo di scatto.
Esco.
Piano terra.
Pronto Francesco? Ti disturbo? Puoi parlare? chiede la voce al telefono.
Sì, vorrei dirle, mi disturbi. Stavo dormendo. Sono le nove del mattino e mi hai appena svegliato. Oggi ho un giorno libero e avrei preferito non avere rotture di palle. Ma la persona in questione, purtroppo per me, è un cliente che mi aiuta ad arrotondare lo stipendio, e a pagarmi le vacanze estive. Quindi ingoio tutto, con una smorfia di disgusto e rispondo: No tranquilla, dimmi pure.
Annoto le modifiche, facendo qualche osservazione che rimane in aria per qualche istante, come appesa ad un filo, per poi essere ignorata dal mio interlocutore. Non faccio una piega, ingoio anche questa. Ci sono abituato.
Qualche istante dopo aver chiuso la chiamata ricevo un messaggio da Esme, una delle stagiste dell’ufficio. È in coda al The Haus, e mi chiede se voglio raggiungerla. Vorrei evitare di consacrare la mia giornata al dio ozio, e pur non sapendo minimamente cosa sia questo The Haus accetto volentieri l’invito.
Quando arrivo sul posto la coda è infinita.
Come mai c’è così tanta gente? chiedo alle ragazze guardandomi intorno. C’è Sophie, anche lei stagista. Dal collo alla vita è vestita come una professoressa, o meglio, una supplente: giacca beige su un top beige con un accenno di scollatura. Sotto la vita indossa dei jeans chiari, degli strappi spezzano in due l’outfit, facendo di lei una supplente solo per metà.
È una mostra in Limited Edition, spiega Sophie.
Cosa intendi? chiede Esme.
Una mostra temporanea. Chiude il 31 Maggio. Dopo butteranno giù tutto il palazzo, per tirarne su uno nuovo, dice Sophie indicando un cartellone con un progetto che prevede un edificio con non so quanti appartamenti di lusso.
Butteranno giù anche le opere, tutte. Dentro espongono più di 100 artisti. È per questo che c’è così tanta gente, conclude poi, sistemandosi gli occhiali sulla punta del naso. Mentre osservo quel gesto non ho più dubbi: Sophie è una professoressa mancata.
Ci rassicura dicendo che da qualche parte ha letto che la mostra è talmente bella da dimenticarsi delle ore di coda una volta dentro. Io ed Esme la guardiamo poco convinti. È già passata un’ora da quando sono arrivato, e si muore di caldo.
Facciamo così, dice Sophie, se non dovesse piacervi, quando usciamo vi offro un gelato.
Affare fatto, dico io. Anche Esme annuisce, sorridendo.
Dopo tre ore di coda arriviamo all’ingresso, dove un buttafuori pelato, in giacca e cravatta, guarda male tutti mentre distribuisce delle buste di plastica bianche e nere dove inserire il cellulare. All’inizio non capisco, ma ripeto gli stessi movimenti di Yvonne—ormai diventata la mia guru—come un mimo. Dopo essersi assicurato che tutte le buste siano sigillate, il bouncer ci lascia passare.
Dentro non si possono fare foto, spiega Yvonne mentre entriamo.
Primo Piano.
Das ist hier die frage: ist das kunst oder klo? chiede una voce alle nostre spalle.
Qui la domanda è: è arte o un cesso? traduce Sophie.
Siamo in uno dei bagni dell’edificio. Su ogni piastrella è stato attaccato un adesivo rotondo con uno sfintere. Sono centinaia. Ogni spazio dell’ex banca è stato sfruttato al meglio dagli artisti: pareti, soffitti, pavimenti, bagni e ascensori. Non solo graffiti e dipinti, ma anche sculture e installazioni. In una delle stanze ci sono dei prodotti da supermercato incollati a degli scaffali. Per ognuna di esse è stata fatta un’etichetta simile a quelle dei pacchetti di sigarette, rappresentante con immagini raccapriccianti gli effetti collaterali di alcuni degli ingredienti nella composizione di prodotti che usiamo quotidianamente: biscotti, dentifrici, creme, marmellate, bagnoschiuma. Mi vengono i brividi solo a guardarle.
In un’altra stanza un graffito in 3D è sospeso in aria, un gioco di luci proietta la sua ombra ogni volta in un punto diverso. Sembra un’astronave.
Un altro spazio è stato completamente dipinto, nero su bianco. Un mostro metallico, che mi ricorda l’uomo di latta del Mago di Oz esce, da una delle pareti muro. Da un armadietto esce uno scheletro. A un estintore sono stati messi occhiali da sole di cartone e delle orecchie da cane. Su ogni termosifone è stata incollata una testa di cane di cartone, disegnata.
Dite che c’è un tema? chiede Esme, che guarda ogni cosa con attenzione, prendendo anche appunti sulle opere e gli artisti che più le piacciono.
Non credo, rispondo io, o almeno non mi sembra. Facciamo il giro di tutto il piano, e in effetti ogni stanza è diversa dall’altra.
Secondo Piano.
Sapete chi è lui? chiedo alle ragazze indicando il graffito sulla porta che conduce al secondo piano.
No, risponde Esme.
È Doctor Doom, un cattivo della Marvel. La nemesi dei Fantastici Quattro, dico io, sorridendo come un bambino che ha appena comprato in edicola il nuovo numero del suo fumetto preferito.
E quella chi è? chiede Sophie, e indica un volto che ricorda uno dei personaggi femminili di Sky-Doll, fumetto di Barbieri e Canepa.
Non ne ho la più pallida idea, rispondo io, ancora con il sorriso da ebete dipinto in volto, mentre apro la porta. Sorrido un’ultima volta al Dottor Destino, ed entro.
Nel corridoio linee bianche e nere si intrecciano formando un pattern geometrico che sfocia nella psichedelia. Entriamo in una stanza buia e mi ritrovo ingarbugliato in mezzo a una quantità incalcolabile di bande di stoffa nera. Vado avanti a tentoni. Le strisce di stoffa sono molto fitte, e ho la sensazione di non avanzare. Qualcuno mi pesta un piede, mentre qualcun altro mi sbatte addosso. Alcuni si scusano, altri no. Continuo ad andare avanti, finché non arrivo in un punto dove le strisce finiscono. Da lì, seguendo tutto il perimetro della stanza, è possibile vedere le opere dell’artista che espone, ed uscire senza dover passare di nuovo in mezzo alle liste di stoffa.
Fuori trovo le ragazze ad aspettarmi.
Finalmente ce l’hai fatta, esclama Sophie. Andiamo, abbiamo ancora altri tre piani da fare.
Terzo piano.
C’è un photoautomat in quella stanza, dico alle ragazze.
Forse è per questo che c’è così tanta gente, dice Sophie. Ma nessuno di noi ride alla sua battuta.
Ancora una volta, mi ritrovo al buio. Faccio qualche passo portando le mani in avanti, per paura di sbattere contro qualche parete. La mia mano sinistra sfiora una corda, spaventandomi. Mi spavento ancora di più quando mi volto alla mia sinistra e vedo un manichino seduto di spalle. Indossa una felpa grigia con dipinto sopra uno smile, sotto di esso due ossa formano una x. Solo il suo volto è illuminato dallo schermo di un telefono acceso che tiene in mano. Di fronte a lui, una serie di specchi riflette la sua immagine diverse volte. È inquietante. A causa del buio, e del gioco di specchi, è impossibile capire dove finisce la stanza. Così come sono entrato cerco l’uscita camminando molto lentamente, per evitare finire addosso al muro.
Nello spazio accanto trovo Esme, intenta a fissare degli stralci colorati di tessuto, che sfumano dal magenta al giallo.
Esme, hai visto la stanza qui accanto? le chiedo.
No perché?
Le metto una mano intorno alle spalle e le dico di seguirmi, deve assolutamente vederla. Mentre entriamo le dico di non spaventarsi. Una volta dentro, rimaniamo lì a guardare il manichino.
Se guardi con la coda degli occhi, il manichino sembra muoversi, le dico io, con entusiasmo.
Oddio, è inquietante. Ti prego voglio uscire, mi dice.
Quarto piano.
Ma cos’è sta puzza? chiede Esme appena arriviamo al quarto piano. Arriccia il naso, disgustata.
Umanità, probabilmente, rispondo io.
La puzza, in realtà, arriva da una stanza in fondo al corridoio dove l’intero ambiente è stato ricoperto da uno strato di muschio, eccetto per una piccola parte al centro, dove lo spazio è occupato da una sedia in plastica, un tavolo, un Macintosh e una porzione di pavimento in PVC. Una critica contro il fenomeno dell’eco-friendly, e di cosa si nasconde sotto questa copertura green di cui tutti quanti si riempiono la bocca.
Prima di salire verso il quinto piano, ci sediamo su un divano in una stanza dai toni surreali. Sembra un set di Nicolas Winding Refn. I neon fucsia illuminano per metà i nostri volti. Sopra le nostre teste, un cavallo di plastica in scala 1:1, attaccato a testa giù al soffitto. Da uno specchio esce la testa di un rettile.
Quinto piano (ripresa).
In una delle stanze ci sono tutti gli annunci che si possono trovare per la città di Berlino, raccolte dal sito Notes of Berlin. Sono state stampate e attaccate alle pareti e in parte sul pavimento. Non parlando tedesco non capisco nessuna delle note. Ma dalla reazione delle persone dentro la stanza immagino siano divertenti, molto divertenti. Cammino in direzione delle scale per uscire e mi accorgo soltanto adesso di una porta chiusa. Decido di entrare. C’è solo una persona, seduta per terra. Un’altra stanza buia. Su una parete è proiettata l’immagine di alcuni stralci di stoffa che ondeggiano, accompagnati dal suono di onde del mare. Mi siedo. Chiudo gli occhi e mi lascio trasportare. Lontano dalla stanza, dall’edificio, dalla mostra, dal cemento della città e dai suoi rumori. Quando apro gli occhi sono solo, la persona che era accanto a me non c’è più, o forse non c’è mai stata.
Piano terra (ripresa).
Arriviamo al piano terra che non mi sento più le gambe. Andiamo al guardaroba e troviamo un piccolo gruppo di persone che aspettare il proprio turno.
No vi prego, un’altra coda no, dice Esme, alzando gli occhi al cielo e sbuffando, esasperata.
Dai, dammi il bigliettino. Le prendo io le borse, le dico. Le ragazze erano lì da prima che io arrivassi. Voglio sdebitarmi.
Grazie, dicono quasi all’unisono, e iniziano ad uscire.
Prendo le borse, e ringraziando mi avvio verso l’uscita.
Trovo Esme e Sophie dall’altra parte della strada. Le raggiungo e porgo loro le borse. Mi volto per guardare l’edificio. Mi accorgo soltanto adesso che sulla facciata esterna diversi graffiti compongono una H coloratissima.
A pensarci bene è un peccato che abbiano deciso di buttare giù tutto, dice Esme.
È vero, dico io, mentre il mio occhio si sposta dalla H alla coda, che sembra non finire mai, è un vero peccato. Ma credo sia anche il bello di tutta la mostra.
Quindi niente gelato? chiede Sophie.
No niente gelato.
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