Sugli interminabili tornanti asfaltati la canicola estiva è ancora più insopportabile. Nonostante sia pomeriggio inoltrato il sole, ancora alto, non smette di battere inesorabilmente sulla città. Solo qualche macchina sporadica interrompe il silenzio, in perfetto stile domenica italiana.
La tua destinazione si trova sulla destra, mi sorprende il navigatore. Mi guardo attorno spiazzata, non noto niente che possa sembrare l’entrata di un ex ospedale psichiatrico, nessun cartello, nessuna indicazione. Solo un piccolo arco intonacato giallo che affaccia su un viottolo carrabile costeggiato da un giardino. Non ci sono porte o recinzioni: l’accesso – e l’uscita – sono liberi a tutti.
La cerata bianca dei tendoni delle bancarelle scintilla sotto il sole creando un riverbero di luce quasi fastidioso. La gente affolla il piazzale della chiesa, mentre un gruppo di ballerini in costume tradizionale si esibisce in una danza balcanica. I bambini corrono in giro, gli adulti procedono lenti sostando a lungo di fronte alla merce esposta e le note delle chitarre e dei tamburelli si mescolano al vociare allegro delle persone. Sul lato opposto del parco le rose del roseto hanno già cominciato a sfiorire per l’intenso caldo, ma ancora colorano il giardino delle diverse sfumature di rosso, rosa, bianco e giallo.
Da quando l’istituzione del manicomio è stata cancellata nel 1978 dalla legge Basaglia, il parco con i vari padiglioni che costituivano l’ospedale psichiatrico provinciale di Trieste sono diventati sede di diverse associazioni, cooperative sociali, istituzioni comunali e universitarie, eventi, manifestazioni e fiere. I cancelli del manicomio sono spariti, la rete metallica che perimetrava il parco è stata abbattuta, le porte degli edifici sono state aperte e le inferriate sostituite da finestre, adesso finalmente aperte.
La prima volta che mette piede in un ospedale psichiatrico è il 1961 e Basaglia ha 37 anni. Fino ad allora si è limitato a portare avanti le sue teorie all’interno dell’ambiente protetto dell’università, prima come specializzando in psichiatria e successivamente come dottorando, scontrandosi spesso con l’élite accademica ortodossa. Ma nel ’58 ottiene la licenza alla docenza di psichiatria e comincia a dare fastidio sul serio. Un conto è polemizzare da studente, un altro è insegnare teorie sovversive che mettono in cattiva luce professori e luminari. Il piano è semplice ma efficace: Basaglia viene contestato pubblicamente dagli altri docenti e le sue possibilità di proseguire la carriera universitaria vengono annullate. Si pensa che possa fargli bene un’esperienza formativa, a diretto contatto con i malati psichiatrici e gli viene offerta la possibilità di dirigere il manicomio di Gorizia. Di fatto un esilio al confine.
C’era stato un altro momento durante gli anni universitari in cui Basaglia era stato violentemente messo a confronto con la brutalità.
L’8 settembre del 1943 il primo ministro Pietro Badoglio annuncia l’armistizio dell’Italia e per gli italiani inizia l’ultima grande guerra civile. Non è più possibile rimanere indifferenti di fronte agli eventi politici, schierarsi diventa un obbligo. Basaglia è allora uno studente di Medicina e Chirurgia a Padova, un insospettabile ragazzo di buona famiglia, ma l’amico Alberto Ongaro non impiega molto tempo a convincerlo ad entrare nella Resistenza. Ha dalla sua parte una carta non da poco, la sorella Franca di cui Basaglia è innamorato. La sposerà qualche anno più tardi e lei lo affiancherà nel lavoro per tutta la vita curandone spesso le pubblicazioni, senza tuttavia aver mai frequentato l’università.
Ma i compagni della Resistenza di Franco sono ragazzi come lui, figli della buona borghesia veneta. Uno, catturato, non resiste alle pressioni e rivela i nomi degli altri. Una mattina di novembre del 1944 i fascisti vanno a prendere Franco nella sua casa a Venezia. Lui corre sul terrazzo di casa, pronto per scappare fra i tetti, ma la madre, terrorizzata, sceglie che preferisce vedere il figlio in manette piuttosto che spalmato sull’asfalto e lo chiama per nome, gli urla di non farlo. Immediatamente scoperto, viene portato in carcere dove rimane fino a fine guerra, nell’aprile del 1945. Sei mesi, in definitiva pochi, troppo pochi per abituarsi alla vita del carcere.
Anni più tardi ad una conferenza Basaglia pronuncia quella che sarebbe diventata una delle sue più famose affermazioni: “Quando entrai per la prima volta in una prigione, ero studente in medicina. Lottavo contro il fascismo e fui incarcerato. Mi ricordo della situazione allucinante che mi trovai a vivere. Era l’ora in cui venivano portati fuori i buglioli dalle varie celle. Vi era un odore terribile, un odore di morte. Mi ricordo di aver avuto la sensazione di essere in una sala di anatomia dove si dissezionano i cadaveri. Quattro o cinque anni dopo la laurea, divenni direttore di un manicomio e, quando entrai là per la prima volta, sentii quella medesima sensazione. Non vi era l’odore di merda, ma vi era un odore simbolico di merda”.
Ma torniamo al 1961, alla prima esperienza di Franco in un manicomio. Uomini e donne di tutte le età sono legati e rinchiusi nei quattro reparti in cui è suddivisa la struttura: il reparto A per l’accettazione, il B per gli irrequieti, il C per i cronici ed il D per i più mansueti, ciascuno dei quali a sua volta suddiviso fra uomini e donne.
Le porte dei reparti, delle celle, dei cancelli del parco, tutte sono chiuse a chiave.
La camicia manicomiale è la divisa ufficiale, nessuno è autorizzato a vestirsi con i propri abiti e nessuno è autorizzato ad avere oggetti personali all’infuori di un piatto, una tazza ed un cucchiaio. Anche il taglio di capelli è uguale per tutti, gli infermieri non sono in grado di tagliarli in altro modo. Ogni manifestazione di ribellione, esasperazione, violenza è domata allo stesso modo: la camicia di forza e, nei casi peggiori, elettroshock. Molti hanno perso i denti ed i capelli per il continuo stress. Si dorme legati alle spondine dei letti, l’unico rapporto che esiste fra il medico ed il suo paziente è quello di totale sottomissione del secondo nei confronti del primo. Del resto il matto in manicomio non ha alcun diritto civile secondo la legge.
Non tutti soffrono di una patologia psichiatrica. Fra i degenti ci sono orfani, scemi di guerra, sopravvissuti ai lager e alle foibe, italiani, jugoslavi, austriaci. Ma anche chi non è entrato malato lo è diventato presto. C’è chi mangia sotto i tavoli raccogliendo le briciole, chi culla costantemente una bambola, chi non ha mai imparato a parlare l’italiano e balbetta sdentato sempre le stesse parole, reminiscenze di ricordi lontani. Ma negli occhi di tutti si legge la paura.
“Eravamo tutti legati col giubbetto. Alcuni attorno agli alberi, altri attorno alla panca e fino a sera non ci slegavano più. […] Eravamo tutti sporchi addosso. Alla sera ci slegavano e ci mettevano a letto legati polsi e caviglie” racconta Carla, una paziente, in un documentario radiofonico dell’epoca della RAI curato da Nino Vascon.
Gorizia è il punto di non ritorno.
L’ospedale psichiatrico di Trieste, il più moderno d’Europa con i suoi 40 padiglioni disposti su 22 ettari di parco, è più grande e più affollato di quello di Gorizia, ma quando Basaglia vi arriva nel 1971 la situazione che trova non è diversa da quella di dieci anni prima.
Adesso, però, sa come muoversi e agisce velocemente con il preciso obiettivo di abbattere l’istituzione del manicomio.
Si inizia levando la camicia e dando la possibilità ai malati di scegliere come vestirsi, mentre allo stesso tempo vengono chiamati parrucchieri per tagliare e pettinare i capelli. Le porte dei padiglioni vengono aperte, le camicie di forza abbandonati, l’elettroshock viene finalmente sostituito dagli psicofarmaci, i turni degli infermieri ridotti da 24 a 8 ore. Si leva le rete metallica che delimita il piccolo spazio asfaltato sul retro di ogni edificio. Adesso i pazienti possono girare per il parco, non sono più costretti a vedere le rose del roseto attraverso le sbarre delle finestre.
La giornata all’interno del manicomio viene riorganizzata in assemblee a cui i pazienti sono chiamati non solo a presenziare, ma sono invitati a sedere al tavolo della presidenza per gestire le discussioni. Finalmente i degenti dell’OPP hanno un posto dove poter discutere le proprie esigenze, promuovere iniziative, esporre problemi, aggregarsi. Finalmente è sorto uno spazio di dialogo fra pazienti e medici. Non tutti però reagiscono bene davanti alle novità: alcuni si spaventano davanti ad una porta aperta e si rifiutano di oltrepassarla, altri reclamano ogni notte a gran voce la camicia di forza perché non riescono a dormire senza.
Scanso un gruppo di bambini che corre e mi avvicino alla porta aperta di uno degli edifici del parco. La struttura sembra quella di una scuola in miniatura. È il padiglione M, il vecchio “Tranquilli-Donne”, oggi sede del CLU, la Cooperativa dei Lavoratori Uniti. Diverse porte in legno, ormai scrostate, si aprono su un piccolo corridoio intonacato di bianco. Non tutte sono aperte, ma su ognuna è appesa una locandina che illustra gli orari ed i giorni dei corsi che si tengono in quell’aula. Entro nella prima aula aperta, è un laboratorio di ceramiche pieno di scaffali sui quali sono esposti vasetti di tutte le dimensioni e colori. La stanza è affollata, non si riesce quasi a stare là. Esco subito ed il mio interesse è attratto dalla ultima porta in fondo al corridoio dalla quale intravedo dei colori sgargianti. È una sartoria di recupero di materiali che produce borse e zainetti. Subito di fianco all’ingresso una vecchia signora non alza lo sguardo dalla sua macchina da cucire. Sopra di lei un manifesto raffigura il disegno di un degente dall’espressione sconsolata e dalla corporatura poderosa vestito di un abito decisamente troppo corto che gli lascia scoperti le caviglie ed i polsi. A fianco un manichino parlante commenta: “Non bisogna allungare il vestito basta accorciare il degente” (citazione di una nota vignetta di Ugo Guarino).
Dopo la rivoluzione di Basaglia, Trieste comincia ad attrarre intellettuali ed artisti da ogni parte d’Italia, primo fra tutti il disegnatore Ugo Guarino, che sarà l’autore dei famosi manifesti dell’assurdo che denunciano la follia del manicomio. La figura di Basaglia diventa il punto di riferimento per un’intera generazione di sessantottini che vedono nell’ospedale psichiatrico di Trieste il luogo di una rivoluzione non più solo teorica ma anche pratica.
Allo stesso tempo aumenta il dissenso, alcuni collaboratori di Gorizia prendono le distanze dalle nuove teorie (in particolare sull’uso massiccio degli psicofarmaci), mentre nel mondo accademico le nuove leve della psichiatria vengono ammonite di non “basagliare”. Pochi mesi dopo l’arrivo a Trieste un paziente dimesso dal reparto di accettazione uccide il padre e la madre e l’opinione pubblica non perde l’occasione per scagliarsi contro Basaglia, il quale viene addirittura accusato di omicidio colposo. Verrà assolto solamente nel 1978.
Già, perché nel frattempo Basaglia è riuscito ad ottenere le prime uscite dal manicomio in giornata per quei pazienti che decidono di trasformare il proprio ricovero da coatto a volontario, secondo il cosiddetto articolo 4. “Dottore, la prego, mi dia il 4” diventa la richiesta più ripetuta fra i corridoi dei padiglioni. Cominciano inoltre le prime feste in manicomio, i reparti si svuotano e si sperimentano i primi reparti misti, nasce il primo giornale della comunità, il Blip- Blip, come il rumore dei cercapersone del personale medico.
Nel 1972 nasce la Cooperativa dei Lavoratori Uniti, la prima cooperativa sociale d’Europa. È un evento storico perché finalmente si riconosce una retribuzione a degenti che, in nome dell’ergoterapia, svolgono attività e servizi utili all’interno del manicomio. Adesso tutti ricevono una piccola paga settimanale con cui comprarsi piccoli oggetti, sigarette, una bibita al bar, un pettine.
Il primo reparto ad essere svuotato è il P, il reparto “Tranquilli-Uomini”. Basaglia invita un altro Basaglia, il cugino e scultore Vittorio, a fare del reparto ormai vuoto un laboratorio artistico dove i matti possano sfogare la loro creatività disegnando, scrivendo, dipingendo. Qui nasce il Marco Cavallo, un cavallo in cartapesta azzurro ad altezza naturale nato da un disegno di una delle degenti, Angelina, che aveva disegnato su un foglio un cavallo all’interno della cui pancia si trovavano degli oggetti a lei cari. Per i due mesi successivi tutti i pazienti dell’OPP lavorano insieme per realizzare il cavallo di cartapesta, nella cui pancia sono racchiusi simbolicamente tutti i desideri dei matti. Cose piccole, un orologio, le onde del mare, tornare a casa. Il Marco Cavallo diventa ben presto il simbolo della libertà, e come tale non può stare chiuso in un manicomio. Bisogna uscire, bisogna portarlo fuori.
La mattina del 25 marzo del 1973 è tutto pronto per il colossale ingresso in città. I pazienti si sono radunati attorno all’ingresso principale, aspettano il Marco Cavallo. Ma quando arriva ci si rende conto che è troppo grosso per riuscire a passare, si rischia di rovinarlo. L’entusiasmo iniziale si trasforma in delusione cocente. Qualcuno non resiste e scoppia in lacrime
Ma Basaglia non ci sta. Se il cavallo non passa allora è necessario abbattere i muri per farlo passare. Un colpo, due colpi, tre colpi e la panchina da giardino usata a mo’ di ariete sfonda la recinzione. I muri sono stati abbattuti, i malati dell’ospedale psichiatrico provinciale di Trieste possono fare il loro ingresso in città. Il Marco Cavallo è libero.
La legge 180, la legge Basaglia che eliminava di fatto l’istituzione del manicomio, arriva nel 1978. Negli ultimi anni la battaglia si sposta sempre più sul campo burocratico, a Roma, in parlamento. A Trieste ormai la strada è stata aperta. Nel ‘73 il manicomio di San Giovanni diventa una zona pilota nell’ambito della ricerca dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla psichiatria, nel ‘75 si aprono i primi Centri di Salute Mentale e vengono avviati i primi appartamenti in città per i malati psichiatrici con differenti livelli di assistenza. Ora i reietti della società hanno conquistato i riflettori: si organizzano eventi di beneficienza, convegni di psichiatria, concerti e spettacoli teatrali. Nel giro di 3 anni, dal 1972 al 1975, il numero dei pazienti del manicomio si riduce da 1.058 a 287. Ma adesso i malati anziché chiedere di tornare a casa dalle loro famiglie chiedono di restare, di non essere mandati a casa dove spesso i familiari ancora non sanno come gestire le crisi.
Basaglia è sempre meno presente a Trieste. Il suo nome ed il suo volto tirato campeggiano con regolarità sulle pagine dei giornali di tutto il mondo e lui, nel ruolo di idolo delle folle, ormai persuase della bontà delle sue teorie, si trova perfettamente a suo agio. Nel novembre del 1979, poco dopo l’approvazione della sua legge, viene chiamato a Roma come coordinatore dei servizi psichiatrici della regione Lazio, ma solo dopo pochi mesi è costretto a lasciare.
Nell’agosto del 1980 Franco Basaglia muore di cancro al cervello.
Il vento, la bora, le navi che vanno via
il sogno di questa notte
e tu
eterno soccorritore
che da dietro le piante onnivore
guardavi in età giovanile
i nostri baci assurdi
alle vecchie cortecce della vita.
Come eravamo innamorati, noi,
laggiù nei manicomi
quando speravamo un giorno
di tornare a fiorire
ma la cosa più inaudita, credi,
è stato quando abbiamo scoperto
che non eravamo mai stati malati.
Alda Merini, A Franco Basaglia
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