Illustrazioni di Caterina Nebl
Una coppia che litiga.
Un gatto sul balcone.
Un uomo che fa pesi.
Meno quattro, meno tre, meno due. Quanti piani ha il mio condominio? È vero che qualche attimo prima di morire tutta la vita ti passa davanti?
Giro la testa. L’orologio luminoso che mi sfreccia davanti segna le 11.
32 minuti e 13 secondi.
Una ragionevole stima prevede che fra 47 secondi esatti mi schianterò contro l’asfalto di via Garibaldi, in una giornata di sole dell’agosto 1976.
Ciò significa che mi rimangono 47 secondi esatti per raccontare la mia storia. Che inizia nel 1960, con il pianto disperato di un neonato, in un piccolo ospedale nella periferia di Bologna.
47 secondi
“Come lo chiamiamo?” Chiese l’infermiera.
“Giovanni, come il nonno” disse mia madre.
“Tiziano, come mio fratello” disse mio padre.
“Questo bambino è scemo” disse il dottore.
E così, da quel momento in poi, per tutti sono stato Scemo.
A casa mi chiamavano Scemo soprattutto di sera, quando mio papà tornava con gli occhi rossi e il corpo pesante e si sedeva in tavola con un sospiro lungo, che lo sgonfiava.
Diceva a mia madre: “Dov’è quello scemo? Digli che non lo voglio vedere”.
Così io mi nascondevo come meglio potevo per far felice mio padre, che doveva proprio divertirsi a quel gioco, se lo voleva fare tutti i giorni.
Quando andavamo in giro, in paese, mi chiamavano scemo al negozio dove facevamo la spesa. Allora mia mamma arrossiva, mi tirava per un braccio e a volte lasciava il carrello a metà.
Ma soprattutto a scuola amavano quel nome. Me lo ripetevano di continuo. Mi circondavano e me lo cantavano in coro, come fosse un ritornello, più e più volte, finché mi girava la testa. E io ridevo, perché ero felice di avere tutti questi amici, che mi volevano talmente bene da intonare il mio nome fino ad averne pieni i polmoni, fino a scoppiare. Con gli altri bambini non lo facevano. Solo con me.
A quel punto arrivava la maestra, quella solo mia, mi trascinava via e mi diceva: “Giovanni, non devi lasciare che ti chiamino in quel modo”. E io pensavo che la maestra tanto intelligente non doveva essere, se non sapeva neanche il mio nome.
Ma un giorno la maestra si ammalò.
Era il 25 febbraio del 1971, pioveva, Il cuore è uno zingaro aveva vinto il festival di Sanremo, nel Nord del Vietnam un attacco aereo aveva fatto strage di civili, e io, durante la ricreazione, rimasi solo con quelli che, avrei scoperto da lì a poco, non erano affatto miei amici.
38 secondi
Mi si gettarono addosso in quattro. Mi colpirono alle costole, agli stinchi, alla faccia, dappertutto. Mentre lo facevano ridevano. Uno diceva: “Tanto più stupido di così non può diventare” e un altro: “Lo dovrebbero rinchiudere dove stanno quelli come lui”. Continuarono finché non vidi tutto nero e poi svenni.
Mi svegliò dopo non so quanto una voce familiare.
“Ho dovuto aspettare che se ne andassero, non volevo picchiassero anche me. Vieni, andiamo sotto alla tettoia, piove, fa freddo, e se mi ammalo mia mamma mi sgrida.”
Marco era nella mia classe. Era gracile, alto, indossava grandi occhiali dalla montatura nera, incollati nel mezzo con il nastro adesivo, non parlava quasi mai, ma aveva 10 in tutte le materie. Abitava in una casa scrostata a dieci minuti dalla mia. Mia mamma diceva che i suoi genitori erano dei disgraziati, ma non ho mai capito che lavoro fosse di preciso. Ogni tanto Marco arrivava a scuola con un occhio nero o con un braccio fasciato e diceva sempre che era caduto o che si era fatto male giocando a pallone. Io pensavo che dovesse essere parecchio sbadato e che forse il calcio non fosse lo sport per lui. Un giorno, qualche mese più tardi, glielo dissi. Lui accennò un mezzo sorriso, ma uno di quelli che fa la gente quando in realtà è triste, e rispose:
“Tutti pensano che tu sia quello sfortunato perché non capisci quello che ti succede intorno, Giovanni, ma io penso che capire e non riuscire a farci nulla sia la vera disperazione”.
Quella fu solo la prima delle frasi di Marco di questo tipo, pronunciate con un tono piatto, che in qualche modo anticipavano gli eventi che avrebbero portato al mio salto nel vuoto.
27 secondi
Da quando Marco mi salvò diventai la sua ombra. Il mattino mi appostavo dietro l’albero del cortile di casa mia e aspettavo finché non lo vedevo in lontananza. Arrivava con un passo lento, quasi strascicato, e lo sguardo inghiottito dal grigio della periferia bolognese. E il cuore mi batteva forte. Quando era abbastanza vicino, uscivo dal mio nascondiglio e mi affiancavo a lui, che mi salutava con un sorriso appena accennato. Ma era uno di quei sorrisi che fa la gente quando è contenta davvero.
I pomeriggi li passavamo a casa mia. A Marco piaceva l’astronomia, adorava i pianeti. Lui arrivava sempre alle due e allora io per le due preparavo tutto quello che ci serviva. Sistemavo sul tavolo in soggiorno delle penne nuove, una rossa e una blu a testa, e i due quaderni che usavamo sempre. Marco non aveva cose sue, arrivava sempre con uno zaino vuoto e non si portava via nulla. Quindi ci pensavo io a procurargli tutto, era una cosa che mi rendeva orgoglioso. Gli altri ragazzini stavano con me ogni tanto, ma li accompagnavano i genitori trascinandoli per mano e quando giocavano avevano la faccia di chi deve fare i compiti. Marco no, lui arrivava solo, restava a lungo e quando se ne andava mi diceva “Ci vediamo domani”, come se avesse paura che gli dicessi di no. Allora io gli dicevo di sì entusiasta, e la sua faccia si distendeva.
Oltre alle cose per scrivere, preparavo dei panini con quello che mamma mi aveva lasciato in frigo e due bicchieri di succo alla mela, il preferito di Marco. Ma soprattutto tiravo fuori la carta stellare che era stata di mio papà. Tutte le volte che Marco la vedeva rimaneva ipnotizzato. Sembrava il mio pesce rosso di fronte al vetro dell’acquario. Sgranava gli occhi, lasciava la bocca un po’aperta e guardava quei punti disegnati sulla mappa ondeggiando leggermente, galleggiando dall’uno all’altro seguendo una traiettoria che vedeva solo lui.
Quando parlava dello spazio lontano il suo viso si apriva in un sorriso grande.
Non durava mai troppo, però, la serenità.
“Questo mondo è una bugia” mi disse una volta “è troppo piccolo per essere vero e gli uomini non sono niente se paragonati alle stelle. Esiste solo il vuoto, Giovanni. Lo senti mai che ti entra dentro, e lentamente ti trascina via?”.
Piano piano imparai a non fare caso a questi momenti cupi, in cui Marco sembrava sparire dietro un vetro appannato. Se impiegava troppo per tornare in sé gli chiedevo di spiegarmi qualcosa che non avevo capito in classe. Lui amava spiegarmi le cose. Mi faceva esempi, mi raccontava delle storie. Appoggiava la schiena alla sedia, rilassava tutti i muscoli e si metteva a fissare un punto a metà fra me e lui. Là prendeva vita un altro mondo.
La nostra amicizia continuò tutta la primavera, l’estate, l’inverno, e di nuovo la primavera. Così per i tre anni successivi.
In tre anni non andammo mai a giocare da lui, stavamo a casa mia, anche se ai miei genitori non piaceva trascorressimo tanto tempo insieme. Mi dicevano che Marco era “strano”. Una volta chiesi a mia madre se fosse peggio essere strano o essere scemo. Lei arrossì, come faceva spesso, e non rispose.
Marco, intanto, aveva imparato gli orari dei miei, quando lavoravano, quando mio padre andava al bar, quando mia madre andava a passeggio con le amiche. Lasciavamo la chiave in un vaso di gerani, appena sopra la porta d’ingresso. Io glielo dissi in modo che lui potesse venire in casa anche quando seguivo le lezioni di recupero dalla vicina. Avevamo un piccolo rito. Io rientravo sapendo benissimo che lui si trovava sul divano, ma fingevo di essere sorpreso. E lui mi accoglieva sempre con la stessa battuta: “Giovanni, almeno bussa prima di entrare, neanche fosse casa tua!”. Mi faceva ridere, anche se lo so che era una cosa sciocca. L’ultima volta che mi accolse in questo modo, però, sembrava ammalato. Disse la sua frase con un tono più fiacco, e io risi meno convinto. Fu un po’ triste, avevo la stessa sensazione di quando ero bambino, ero ad una festa di compleanno e i miei genitori iniziavano a guardare l’orologio. Forse avrei dovuto chiedergli cosa c’era che non andava. Forse, se lo avessi fatto, non avrebbe avuto bisogno di tornare quel giorno, l’ultimo che lo vidi.
19 secondi
Poi un giorno Marco smise di venire a scuola. Non si presentò per settimane. Io non avevo il permesso di andare da lui, quindi cercai di resistere il più possibile senza vederlo. Lo pensavo intensamente la sera, prima di andare a dormire. Mi mettevo sotto le coperte e mi concentravo, stringevo gli occhi e gli mandavo dei messaggi. Ma non era abbastanza e, per quanto mi sforzassi, lui non rispondeva.
Allora un giorno decisi di fargli una sorpresa. Presi di nascosto ventimila lire dal portafoglio di mamma e andai in cartoleria a comprargli una mappa stellare.
Era il 19 luglio del 1975, sui palchi di Londra un gruppo di sbandati si esibiva per le prime volte inaugurando il movimento punk, al cinema veniva proiettato “Amici miei”. E io da lì a poco avrei compiuto quindici anni.
Rimasi in quella cartoleria per quasi due ore. C’erano cinque mappe stellari diverse e non riuscivo a decidere quale sarebbe piaciuta di più a Marco. La commessa mi lanciava occhiate nervose, le chiesi quale avrebbe voluto ricevere lei come regalo e mi rispose: “Quella che costa di più”, sbuffando. Allora presi quella.
Mi fiondai a casa di Marco trattenendo il fiato, perdendo l’equilibrio, correndo così veloce da far diventare le case solo una spennellata uniforme di grigio. Ero così emozionato all’idea di dargli il suo regalo che non guardai a destra e a sinistra prima di attraversare la strada facendo quasi cadere un bambino in bicicletta, non notai i rimproveri di una signora che mi gridava di stare attento. Arrivato al condominio lessi i nomi sui campanelli lungo le scale al volo, senza fermarmi un secondo. E, una volta arrivato all’appartamento, entrai senza bussare.
La prima cosa che ricordo è la puzza. Di cibo andato a male, di fumo e di putrido. Per terra c’erano confezioni vuote, una montagna di lattine, qualche bottiglia rotta e un sottile strato di polvere umida e muffa che ricopriva tutto il pavimento. Era scuro, ma dalla finestra entrava un fascio di luce che illuminava il cucinino. Fin da dove stavo riuscivo a vedere il cibo ammuffito nelle padelle ammucchiate a caso, dentro e di fianco al lavandino. All’improvviso qualcosa si mosse in mezzo ai piatti, facendo un rumore scricchiolante, rimase fermo a guardarmi con due occhi rossi e poi zampettò via trascinandosi dietro un pezzo di pane rancido.
Fu allora che sentii qualcosa dall’altra parte della stanza. Un suono ritmato, un soffio accompagnato da un rantolo. Sembrava il rumore di un motore che fa fatica ad accendersi, anche se mi pareva avesse qualcosa di vivo.
Mi girai.
C’era una creatura viscida che strisciava sul divano in fondo alla stanza.
Era lunga come tutta la poltrona, aveva delle pieghe e sembrava ricoperta da una bava. Emetteva quel suono lamentoso e si contorceva, immersa nello sporco.
Non riuscivo a muovermi. La mia testa pulsava, iniziai a tremare e dovetti ributtare giù un rigurgito di vomito. Non potevo distogliere lo sguardo, era più forte di me, e piano piano iniziai a vedere più chiaramente i contorni di quella cosa. Dopo qualche secondo, capii.
Quello non era un mostro. Era una donna, completamente nuda, che dormiva. Era grassa, aveva pochi capelli, solo due ciocche che le coprivano gli occhi. Sull’interno delle cosce, dove le gambe si univano, aveva grosse piaghe rosse. Un braccio che pareva un prosciutto le schiacciava una tetta, mentre l’altra tetta penzolava dal divano, come colla vinilica, e sembrava si stesse per staccare. Non avevo mai visto delle tette vere in vita mia prima di allora e non riuscivo a non guardare quella cosa gelatinosa che dondolava. Il respiro regolare di quella donna orrenda le faceva traballare la carne molliccia, creando l’immagine di un grosso verme che si sposta.
Dei passi nella camera in fondo mi distolsero da quella cosa repellente. Marco apparve sulla soglia della porta.
8 secondi
“Cosa ci fai qui? Chi ti ha dato il permesso di entrare? Vai via! Via! Non ti ci voglio qui! Non ti voglio, smettila di starmi addosso, lasciami in pace!”.
Marco era senza maglietta, dalla sua pelle biancastra spuntavano evidenti le costole, aveva un braccio tumefatto, puntellato di croste ed ematomi. Ma anche se le sue parole erano cattive, i suoi occhi erano tristi, come quando mi diceva quelle frasi strane che lo portavano lontano.
Ero frastornato. Scappai. Corsi più veloce che potevo. Giù dalle scale, oltre il cortile, al di là della strada, mi sembrava di non toccare terra con i piedi, e intanto piangevo, singhiozzavo, e maledicevo Marco e le sue stupide stelle. Feci a brandelli la carta stellare e ne seminai i pezzetti lungo il tragitto.
Passai i giorni successivi nella mia stanza, spaventato. Nella mia testa rimbombavano le grida di Marco e nei miei sogni compariva ogni notte un enorme verme bianco con la testa di donna, che mi invitava a entrare in casa, e parlando sbavava, e sbavando mi riempiva di una schiumosa saliva bianca che mi soffocava.
Non capivo cosa fosse successo. Perché Marco rimaneva in quel posto putrido con quella donna che non sembrava un essere umano? Perché mi aveva cacciato? Di cosa si era ammalato? Sapevo che c’era qualcosa di sbagliato, fuori posto, ma non riuscivo a capire cosa di preciso. E mi odiavo per essere uno stupido che non capiva niente e non poteva aiutare nessuno.
Poi, lentamente, il tempo trascinò via con sé il dolore. Fu graduale, non mi resi neanche conto che la sofferenza a poco a poco si attutiva. La speranza di rivedere la sagoma di Marco lungo il viale lasciò presto posto alla rassegnazione e, un giorno, senza nemmeno accorgermene, mi dimenticai di appostarmi dietro l’albero del cortile per aspettare il mio amico.
Senza Marco ad aiutarmi, i miei voti precipitarono. Uno ad uno, i professori iniziarono a lamentarsi con i miei genitori i quali, infine, decisero di ritirarmi da scuola.
Era il 17 maggio 1976, ventisei anni dopo la strage di Superga il Torino era tornato campione d’Italia, l’eroina a Bologna si sedeva a tavola con tossici e uomini per bene, e in cielo splendeva un sole meraviglioso.
3 secondi
Oggi mi sono alzato alle 11. Sono andato alla finestra e l’ho aperta per far entrare la brezza di inizio estate. Mi sono seduto sul letto ancora sfatto e ho iniziato a pensare a come avrei potuto riempire quella lunga fila di giornate vuote, che sarebbero passate una identica all’altra, come la serie di palazzi grigi che segnano l’orizzonte bolognese.
All’improvviso il pensiero di Marco mi ha travolto. Mi sono ricordato di tutti i pomeriggi che abbiamo passato assieme, di come ero emozionato all’idea di trovarlo sul divano quando aprivo la porta di casa. Quanto era vuota casa mia adesso! Mi è salito un nodo alla gola e mi sono sentito in colpa per aver abbandonato il mio amico, l’unico amico che ho mai avuto.
Ho fatto avanti e indietro il corridoio di casa mia per quasi due ore, battendomi le mani sulla fronte, aprendo la porta piano per uscire e richiudendola veloce subito dopo. Poi ho deciso. Ho deciso di tornare a casa sua. Nella mia fantasia avevo l’immagine di una battaglia contro l’enorme verme. Io, sicuro, valoroso, come uno dei cavalieri di cui Marco mi raccontava, avrei ucciso l’orrenda creatura che teneva il mio amico in prigione e noi due saremo stati di nuovo insieme.
Ma proprio in quel momento un rumore dalla camera dei miei ha interrotto quel sogno di gloria, come se la realtà volesse riportarmi al mio posto, ché le ambizioni non sono roba da scemi.
Ho pensato che mio padre o mia madre avessero dimenticato qualcosa e fossero venuti a riprenderselo, e sono andato a guardare.
Sono entrato in camera. L’anta dell’armadio era aperta. Dietro, una figura rovistava tra i vestiti, si muoveva in fretta, come un animale che scava un buco. Non erano né mia mamma né mio papà, l’ho capito subito. In bocca mi si è formato un sapore amaro, come di ferro, come se tutti i sensi, anche il gusto, mi stessero mettendo in guardia contro qualcosa.
La figura ha richiuso l’anta.
Di fronte a me, per la prima volta dopo mesi, c’era il mio amico Marco.
1 secondo
O meglio, la persona che sta di fronte a me, con in mano i gioielli di mia madre, è lo spettro di quello che una volta era Marco.
I capelli, che teneva corti e pettinati, adesso gli cadono disordinati sulle spalle. Sono unti, il nero lucido mette in risalto il pallido di pezzi di pelle morta e il bianco della forfora, e gli si appiccicano sulla faccia.
Questo non è Marco.
Marco non è mai stato grasso, ma ora la sua magrezza fa paura. Mentre sono là paralizzato a guardarlo riesco ad individuare ogni ossicino, che spunta come volesse uscire da quell’involucro che sembra sgretolarsi da un momento all’altro.
Non è lui.
Ha la faccia gialla. Le persone non hanno la faccia gialla. Trema e ha le croste vicino alla bocca. Sta sbavando leggermente da un lato. Ma sono i suoi occhi che più di tutto il resto mi danno i brividi. I suoi occhi sono vuoti. Non c’è niente dietro, non c’è il mio amico, non ci sono i nostri ricordi, non riesco a vedere quella volta che mi ha aiutato a ricreazione, o quando mi ha spiegato la fotosintesi che io non riuscivo proprio a capire; non trovo l’immagine di lui che arriva dal vialetto, o di lui che mi prende in giro dal divano. Non c’è niente di tutto questo. C’è solo quel vuoto di cui mi parlava e che adesso, lo vedo, l’ha trascinato con sé per davvero.
Quello Che Era Marco mi guarda e inizia a parlare. Io non sento. Non capisco perché non sento, poi capisco: è perché sto gridando. Grido e piango allo stesso tempo, guardo Quello Che Era Marco con gli occhi sbarrati e urlo, mi sembra che il collo mi si squarci a metà ma non riesco a smettere, la testa mi batte e il respiro mi riempie fino al collo. Quasi svengo.
Quello Che Era Marco fa un passo verso di me, allora mi giro e corro in camera. Sembra lontanissima la mia camera, anche se è là a venti metri. Accelero, mi ci dirigo con tutto me stesso, con tutto il corpo in tensione, mi allungo con tutti i miei muscoli e alla fine la raggiungo.
Entro, ma non riesco a chiudere la porta in tempo e Quello Che Era Marco entra con me.
Devo prendere fiato, devo smettere di urlare. Indietreggio fino alla finestra, ansimando, e intanto Quello Che Era Marco continua a parlare. Colgo pezzi di frase. Dispiace, Qui, Ti ho portato.
Prendo i miei libri di scuola dagli scaffali e glieli butto contro, ma lui continua a venire verso di me, mi si avvicina puntandomi addosso un braccio, con quelle dita lunghe e le unghie nere, e tiene qualcosa dietro alla schiena.
Non riesco a capire chi sia quella cosa, è come vedere un morto, e mi viene in mente quella volta in cui da piccolo ho visto un gatto schiacciato sul bordo della strada, che aveva tutte le budella di fuori, ma aveva ancora gli occhi sbarrati che mi fissavano. Io l’ho toccato con un bastone, allora si è iniziato a muovere tutto, come percosso da piccole scosse; brulicava, sembrava volesse alzarsi e mettersi a correre, ma gli occhi rimanevano fissi e spenti, e a un certo punto uno dei due è uscito fuori dall’orbita e mi è rotolato vicino, e dal buco sono uscite decine e decine di vermi.
Gli occhi di Quello Che Era Marco sono come quelli di quel gatto, forse anche lui è pieno di vermi. Vive con un verme ed è pieno di vermi, in verità è morto ed ora vuole che io vada con lui.
Adesso mi può quasi toccare.
Salgo sul balcone.
Guardo Quello Che Era Marco e poi guardo il vuoto, per due volte guardo Quello Che Era Marco e poi guardo il vuoto.
Poi guardo solo il vuoto.
0 secondi
Una coppia che litiga.
Un gatto sul balcone.
Un uomo che fa pesi.
Meno quattro, meno tre, meno due. Quanti piani ha il mio condominio? È vero che qualche attimo prima di morire tutta la vita ti passa davanti?
Giro la testa. L’orologio luminoso che mi sfreccia davanti segna le 11 e 33 minuti esatti.
Ho un’ultima immagine stampata davanti ai miei occhi, appena prima che il mio corpo si strazi contro il marciapiede assolato di Via Garibaldi. Una mappa stellare sgualcita stretta in un pugno, rammendata con scrupolosa attenzione, i mille pezzetti in cui era stata strappata, chirurgicamente ricomposti e incollati con lo scotch.
Illustrazione di copertina: ©Caterina Nebl
REDAZIONE
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